pudenda

martedì 28 dicembre 2010

Marcia di Natale

Ho delle cose marce in frigo. Il loro tempo è scaduto e restano lì con la tipica passività del natale. Le tocco, hanno tutte la consistenza del tempo perduto: spugnose, grinzose, mollicce. Potrei attendere che una pelosa patina verdastra le ricopra completamente, rendendo omogeneo il panorama dei ripiani, il disfacimento. Sono avanzi di nature morte, sono muffe in divenire. Il contatto con le loro superfici distorte mi duole, e mi aizza contro il passato natale. Ma ho la bocca troppo stanca per vomitare. Accarezzo un manzo secco, solletico le squame di un pesce giallastro, strofino la pellicola rugosa di una macedonia cadavere. Hanno la fine nei loro occhi le cose marce dentro al frigo, una tomba luminosa e confortevole. Hanno superato la data, quella fatidica e definitiva. Ora le lancio contro le pareti della cucina. No, non lo faccio, troppa è la paura di rovinare gli addobbi di mia madre. Il microonde mi suggerisce di far esplodere il frigo, l'accendigas emette qualche scintilla di approvazione, la lavastoviglie tossisce ironica. Io chiedo aiuto all'albero con le lucine, ma a quest'ora è spento, non mi dice niente. Allora mi siedo a terra davanti al frigo aperto, aspetto che un fiore (qualsiasi fiore, anche una stella) nasca dal brodo andato a male, come se fosse un germoglio primordiale.

lunedì 20 dicembre 2010

trasformiamo specchi in finestre




parliamo del vento di maestrale
parliamo della sabbia, di quanto sappia essere cruda
parliamo di noi, del nostro patetico aggirarci tra gli abeti 
quando qualche parente si sposa
 ne dobbiamo bere ancora di mosaici per diventare ciò che siamo

altro che trasformare specchi in finestre
piuttosto
basculanti in zanzariere
vasi da notte in copertoni
nipoti in calembours
nasi posticci in salamino piccante
siamo orsù dei trasformatori!

degli adattatori!
delle triple!
dei fusibili!
delle ciabatte!
solo allora capiremo
solo allora
solo


lo dico adesso, ma è facile dirlo: capirlo lo capiremo allora
in un momento qualsiasi
sollevando il braccio dalla posata
o girando il mento verso la terza pagina
o sul finire di un complesso rito aeroportuale
lì lo capiremo

e sarà come un fulmine di pegasus.
23:31:32: ZAC!






mercoledì 1 dicembre 2010

un hobbie come un altro

Terza tappa: piazzale Loreto.Qualcuno propone la tangenziale ma ci rendiamo conto che non abbiamo materiale adatto per un azione del genere. In Loreto al grido di “blocchiamo tutto blocchiamo subito” e “ne facciamo uno al giorno” il blocco avviene grazie all’arredo urbano(troppo poco) presente in loco. Cartelli divelti e cestini ribaltati. La madama arriva quasi subito. Lasciamo le improvvisate barricatine a fare il blocco al posto nostro. Di nuovo nella metrò.

domenica 14 novembre 2010

tazenda: metamorfosi

Ieri sera appena tornato a casa ho dato da mangiare alla mia coppia di apistogramma cacatoides, ma per sbaglio mi sono caduti troppi chironomus e prima di provare a recuperli il maschio li aveva gia mangiati tutti! Stamani quando si sono accese le luci aveva la coda arenata sulla sabbia come se non potesse nuotare e stasera è morto tenendo un colore scurissimo e muovendosi come se avessi problemi alla vescica natatoria. La femmina e i due otocinclus stanno bene quindi escludo i valori dell'acqua, la morte può invece attribuirsi ai choronomus? Sono davvero a pezzi, oramai per me era come un cagnolino : (

Saluti a tutti

mercoledì 3 novembre 2010

poesia mancata di un soffio

mi piace puntare in alto
al soffitto
lo schianto fa più coriandoli

lunedì 25 ottobre 2010

strade

Seduto all'aperto al tavolo di un bar Rama osservava le scarpe di tutti i passanti.
Hai superato i trent'anni, gli diceva Anna, é ora che trovi la tua strada.
Rama ditolse lo sguardo da terra e fissò il tappo di sughero posato accanto alla bottiglia sul tavolo accanto. Per un momento guardò Anna, poi prese il tappo, lo fece scurire sulla fiamma della candela del tavolino al quale erano seduti, traccio col nero del tappo una linea a terra, sull'asfalto, che terminava con una freccia.
Fissò Anna negli occhi, Ci provo, le disse.
Si alzò e inziò a camminare in direzione della freccia appena tracciata, perdendosi nel traffico.

giovedì 21 ottobre 2010

caffè

Anna ogni tanto, dopo minuti di silenzio, mi chiede a cosa penso.

Mi sembra sia rimasto tutto come ai tempi di Gozzano -le dico- le signorine in pasticceria che bevono il ciccolatte e si sciolgono per qualche novello dannunzio, forse con ancor meno arte. I progetti e i programmi futuri, la nuova passerella universitaria dove sbrigarsi e fare in fretta ad arraffare, tenere gli occhi aperti al buon partito. I tavolini pieni, gli spritz malfatti senza il vino fermo, le ballerine nuove e gli stivali di stagione. Le diete per snellire i fianchi, i pantaloni per fasciarli bene, le gonne corte o lunghe, dipende dalle gambe, le mode che cambiano e ritornano. Ci sono i telefoni è vero, le televisioni i computer. Niente più lettere profumate scritte a mano, niente più lacrime a bagnare le pagine o ciocche di capelli come pegno. Qualche messaggio d'amore sul telefonino, che passa di mano in mano sugli smalti colorati che guardo sempre con attenzione maniacale. Non più teatri ma concerti e aperitivi, dove conta ancora esserci e narrarsi, non mancare le occasioni.

Di solito Anna mi interrompe annoiata. E tu, mi chiede, cosa vorresti fare?

Io starei qui al bancone a bere i miei caffè, guardare attorno tutti che si accalcano, annoiarmi un poco, annoiare, per qualche anno almeno.

lunedì 18 ottobre 2010

Teflon per tutti


mercoledì 13 ottobre 2010

Apoteosi nonsense

Ho sottoscritto un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

lunedì 11 ottobre 2010

Aut Unno Caldo

Ho la finestra di fronte che mi guarda in faccia come se non potessi sfuggirle. Le altre restano spente, forse non se la sentono di spiare. Il suo occhio (di bue) mi penetra nella stanza, scuiando la mia intimità, pelle dopo pelle dopo pelle. Vedo allora le mie budella gettarsi di sotto e l'esplosione che è un controbalzo sordo. Un piccione scuote la testa, un altro vomita sul davanzale, mentre quell'uomo (sempre quello) brucia foglie di carta per dare un ritmo al tempo. Stanno le macchie sull'asfalto a testimoniare le pisciate notturne, forse le avventure di uccelli ubriachi, alla ricerca di angoli bui: per volare. Ho la fronte calda, sarà l'autunno. Ho le mani fredde, sarà che il riscaldamento non è ancora acceso (dov'è quello globale quando serve?). Non c'è più la finestra che mi fissa, l'hanno spenta, allora per solidarietà spengo anche la mia; poi mi spavento, scosto la tenda: nessuno scherzo. Stanno le foglie, come le mie convinzioni, per cadere. L'autunno suda, senza correre il rischio di scaldarsi troppo; noi ci agitiamo, ma l'agitazione non riscalda, è solo uno sbalzo di pressione.

domenica 3 ottobre 2010

Sconfiggere il berlusconismo


venerdì 1 ottobre 2010

E noi non ci saremo

Domani Il Traghetto Mangiamerda non sarà qua
(nonostante il nome sulla locandina):





Perchè sarà qua
(per l'esattezza, sotto lo zoccolo anteriore sinistro di Artax):


mercoledì 29 settembre 2010

Poi ci ho pensato su

domenica 26 settembre 2010

Una giornata a Venezia

La città senza strisce pedonali.
La Firenze eternamente allagata.
L’Amsterdam del sud Europa.
La città del Mose.
Mosè.
Che la divise dalle acque.
Col Mose.
Acqua alta.
Gondole ovunque.
Taxi senza ruote.
Umidità del manto stradale.
Turisti americani.
Bella pizza.
Bello Lido.
Bello George Clooney.
Ancora acqua.
Chiesette qua e là.
Edifici storti.
Persone diritte.
Sotoporteghi sporchi di carnevale.
Fragole marce.
Morti a Venezia.
Nebbia grigia.
Acqua verde.
Calli.
Calli strette.
Turisti tedeschi.
Turisti tedeschi obesi.
Turisti tedeschi obesi incastrati in calli strette.
Acqua in abbondanza.
Pesce nell’acqua.
Puzza di pesce.
Pesce nell’aria.
Frasi piene di ics (x).
Il serenissimo campanile.
Turisti giapponesi.
La guida con l’ombrellino rosso.
Le fotografie.
Becchime a peso d’oro.
Da tutto il giorno loro ti scrutano dall’alto.
È il pianeta dei piccioni.

sabato 11 settembre 2010

Balconing

Salve a tutti, approfitto di questo blog per raccontarvi la mia storia. È una storia un po' triste, ve lo dico così prima di procedere -suggerisco- potrete prepararvi un drink ristoratore. Un whisky, suggerisco.

Ero un ricercatore (primo sorso). Da ricercatore, ho passato i miei anni migliori a cercare un modo per permettere anche ai ciechi di ascoltare la musica. Quando mi sono accorto del mio sciocco errore1, nell'esatto istante in cui me ne sono reso conto, ho sentito chiudersi dietro di me la porta dei miei anni migliori ("clack!", non "sbam!": il che ha aggiunto una sottile beffa al danno).
Ho chiuso gli occhi per un attimo, ho fatto un respiro profondo, e ho raccolto la caparbietà che mi rimaneva sotto le unghie. Bene amico mio, mi sono detto2, vediamo cosa abbiamo qua. I miei anni peggiori, questo avevo davanti, questo mi rimaneva.

Quando ti rendi conto di aver toccato l'apice -lo senti, o per pigrizia decidi che ok, può bastare- è avvilente la consapevolezza che tutto il resto è china discendente3, e a quel punto capisci che il suicidio non è un'ipotesi così marrana. Andarsene, senza disperazione, senza tragedia, suvvia non siamo patetici, che mai sarà. Senza cordoglio. (Cordoglio, figlioletto, estremisti, strage annunciata: un giorno ci sarà da scrivere qualcosa sulla terminologia delle 20 e 30. Per adesso ci limitiamo a notare che è il secondo post di fila in cui in un modo o nell'altro fa capolino il suicidio. Amici miei, non vi starò forse lanciando un segnale? Forse no.)

Quindi mi sono avvicinato al balcone.
Un anonimo balcone4 di un modesto hotel di Ibiza. Mi ero rifugiato su quell'isola dopo aver visto Broken Flowers di Jim Jarmush, in barba ai nessi causali, a Ibiza forse avrei trovato momentaneo sollievo dalla frustrazione dentro qualche facile coito. Ma no, i miei trentanove anni di precariato sprecato mi premevano le spalle come un massaggiatore insolente, lo scoramento era inesorabile, non vedevo via d'uscita. Il balcone.
Mi sono sporto, l'aria di mare arrivava fino a lì, ah che inutile ebrezza, ah quanta gioventù persa -amico mio- a correre dietro ad un sogno sciocco, ho guardato in alto, il cielo senza stelle mi parlava in qualche modo di dio, sono salito sul parapetto del balcone e ho chiuso gli occhi.

Un urlo me li ha fatti riaprire, rompendo l'incanto che come si sa sempre precede il momento del suicidio. Niente tragedia, certo, era nei patti. Ma un minimo di teatralità è di dovere, in questi momenti. E invece un urlo sguaiato interveniva a rovinare tutto quanto. Ho dovuto fermarmi. Mi sono girato, e sono rimasto come si dice a bocca aperta5: dagli altri balconi, suicidi come se piovesse.

A dire la verità, non avevano la guisa che ci si aspetta da un suicida: nessun silenzio, nessun incanto, decine e decine di ragazzi si lanciavano nell'aria della notte gridando e ridendo. Un gioco, ah ah.
Ho guardato giù, dieci piani più in basso c'era una piscina. Dentro, risate e sguazzi. Al bordo, intorno, tre o quattro corpi, nel sangue. Ah ah. E ancora, in continuazione, dai balconi e dalle finestre, corpi e corpi. Ah ah, molto simpatico: lemmings.

Guardandoli, il primo istinto è stato di desistere.
Poi improvvisamente6 ho capito: l'apice della mia esistenza non era ancora raggiunto. Il picco, la gloria, era proprio in quel frangente: il salto, il volo, l'impatto. L'ho capito guardandoli, l'ultima lezione -chi l'avrebbe detto- l'ho subita così, da questi sbarbini zeppi di sostanze psicotrope e noia altoborghese, l'ho capito guardando loro. La maestosità della vita concentrata nell'arco che precede lo schianto, nel momento che precede il lancio, nello schianto stesso.
Sono tornato nella stanza, mi sono sistemato i capelli con un pettine, sono uscito di nuovo e mi sono lanciato.

Ovviamente7 ho centrato la piscina: è per questo che ora potete leggere queste righe.
Scendendo, più o meno all'altezza del settimo piano, ho pensato con un sorriso a quanto fosse in fin dei conti perfetto il contesto, ironica la situazione: un quarantenne rispettabile, in palandrana e pantofole, senza alcolici o allucinogeni nel sangue e con 18 punture di zanzara sulle gambe bianchicce, spiaccicato al suolo in mezzo a una massa di giovinastri perduti, le mie carni confuse alle loro, identità biografie e intime ragioni, tutto mischiato nel sangue, ho pensato cadendo. E ho visto, con gli occhi che vedono all'indietro, all'interno -immaginazione aperta, spazio rubato a quello che dicono dovrebbe essere lo scorrere veloce di tutta l'esistenza- ho visto cadendo l'immagine di me che cadevo, dal basso, al rallentatore, un vecchio in palandrana e pantofole e sguardo assorto, come una stella filante in mezzo ad altre stelle filanti, l'unico silenzioso, tra le urla, il solo vero suicida, ho pensato cadendo, con un sorriso.
Ma ho centrato la piscina.

Di quello che è successo poi che dire, come dirlo, è presto detto. Da lì la mia vita ha preso una piega inaspettata: sono diventato una specie di eroe per quei ragazzi, ho imparato i rudimenti del parkour e della noia altoborghese, i ciechi e la ricerca non mi interessano più8, e da allora ho capito. Ho capito che forse è vero che l'apice lo si tocca una volta sola, e più su non si va: ma è anche vero che vi si può rimanere attaccati, all'apice, facendo della determinazione una ventosa.
Ora passo le mie serate al bar con il gruppo, ci diamo fuoco alle braccia, guardiamo le partite, parliamo di Foucault. E io da qua non scendo.
Ieri il Fuz è morto mangiando una cesoia.





1 i ciechi non capiscono niente di musica.

2 io sono mio amico.
3 l'inchiostro, nel tragitto dal pennino al foglio.
4 in realtà il suo nome era Giorgio -il nome vero, primordiale, che precede e elude la nominazione- e la sua storia è invero interessantissima. Sedetevi, ve la racconto: Giorgio all'epoca del nostro racconto era un balcone schivo e taciturno, ma non era sempre stato così.
5 qua si inciampa in una domanda, mal formulata e probabilmente ubriaca: il meccanismo del riflesso concepisce la bidirezionalità? Ovvero: se muovo la coda ad un cane lo rendo felice? Se inumidisco una vagina (con una spugna, ad esempio) la rendo felice? Io stupisco ad ogni boccone, ma sono un'anima bella, non faccio testo.
6 c'è qualcosa di maledettamente triviale in questo avverbio. Quando scopro cos'è, son cazzi amari per tutti.
7 ovviamente no, dai. Ben più prevedibile è il topos della voce narrante che poi si scopre appartenere ad un morto. O tempora, se per racimolare un tozzo di stupore bisogna ricorre all'ovvio! Notabile l'impacciato ricorso a due latinismi e il riferimento allo stupore nel giro di poche righe: attenzione compagni, la spirale si fa sempre più stretta.
8 la spirale si fa sempre più stretta, il whisky spero per voi ne sia rimasta almeno una goccia.



martedì 31 agosto 2010

Per fortuna che Angelino c'è

Tu-tuuu.
tu-tuuu.

Pronto?

L'altra sera, devo dire la verità, mi sono finalmente sentita RESTITUITA AL TRANQUILLO VIVERE QUOTIDIANO.
Vicino a casa mia, accanto ai cassonetti della spazzatura è cresciuto alla velocità di un fungo atomico un nuovo sistema di videosorveglianza.
Facendo attenzione ad assumere la camminata e lo sguardo tipico degli abitanti della mia via ho buttato con gesto atletico il sacchetto della carta e quello della plastica, il sacchetto dell'umido nell'umido cassonetto e una alla volta diciotto bottiglie di vetro nella verde campana.
Ho fatto un cenno d'intesa all'occhio sintetico ma, a dire la verità, giusto per essere sicura di non essere scambiata per qualcuno che vive nella via accanto, ho detto a voce alta PERDINDIRINDINA!
Ah, che bello abitare nella mia via,con tutti questi STRUMENTI MIGLIORATIVI DELLA QUALITA' DELLA VITA!
Tra i cassonetti della mia via e casa mia (che sta sempre nella mia via) ci sono poi circa trentacinque metri. Non molti, a dire la verità, ma che sollievo quando mi sono resa conto che la TELECAMERA BRANDEGGIABILE del NUOVO UFFICIO MOBILE DI PROSSIMITA' mi stava proteggendo con il suo sguardo indiscreto.
Devo dire la verità, le mie anche si sono un po' pavoneggiate: il fatto che I CONFINI FISICI DEL CORPO UMANO dei videosorveglianti siano stati SUPERATI non li rende certo meno umani, no?

Clic.





Le parti in CARATTERI MAIUSCOLI sono liberamente tratte dal sito del Comune di Verona alla voce VIDEOSORVEGLIANZA.

venerdì 27 agosto 2010

ai Kirillov

Questo annuncio è rivolto a tutti i suicidi, ovvero agli aspiranti tali.
Mi presento. Sono una persona "malata", secondo i canoni di questa società: amo uccidere.
Più esatto dire che non posso fare a meno di farlo, il che fa di questa pulsione a tutti gli effetti una malattia. Io per primo me ne rendo conto e lo ammetto, non senza sforzo.
Al razionale riconoscimento dell'impraticabilità sociale di questa inclinazione -e a fare più rotonda la mia presentazione a voi tutti-, si aggiunge un'innata e profonda sensibilità nei confronti del prossimo mio: pur quotidianamente spinto all'omicidio da qualche bizzarria della psiche, non potrei farlo, assolutamente, nella consapevolezza di rovinare in tal modo un'esistenza.

Avrete capito dove voglio arrivare. Suicidi cari -ovvero aspiranti tali-, con voi il discorso vivaddio cambia! Passo quindi ad un registro più veloce e pratico, non voglio con le mie parole far convinto nessuno che già non lo sia.


Suicida.
Ovvero aspirante tale.
Novello Seneca.
Mi rivolgo a te!

TU che stanco di questa stanca vita,
TU che per questo o per quello hai scelto di indossare l'estrema cravatta,
TU la cui mano trema, pietrificata dal terrore, sul grilletto.
Ci sono qua io!

per morti indolori o morti strazianti
ardite soluzioni sceniche
massima igiene e cura nei dettagli
all'occorrenza, un tocco di ironia!

astenersi mitomani ed esibizionisti
e labrador


mercoledì 25 agosto 2010

Segnalo: Premio Formiche Rosse


Mi permetto di segnalare:
PREMIO DI NARRATIVA ESSENZIALE FORMICHE ROSSE

Come questa qua sopra.

lunedì 23 agosto 2010

?

sabato 21 agosto 2010

Il Grande Gioco delle Catene Associative presenta: Rosso.

Rosso
Libretto
Mao
Maramao perchè sei morto
Cossiga
Flaccidume
Marciume
Putrido
Porchetta
Viali
Peripatetica
Aristotele
Motore primo
Frizione
Freno
Incidente
Semaforo
Rosso.

Sleeping bag

l'uomo dorme con la testa appoggiata alle sue scarpe da tennis rosse perfettamente allineate.
le sue gambe ranicchiate sembrano sorridere mentre affermano risolute la conquista del marciapiede.
carla in piedi sulle punte sbircia dalla finestra della torretta.

giovedì 19 agosto 2010

Cossiga?

sabato 7 agosto 2010

Un vero duro

Lettera allo zio Carlo che vive in America,
Mi chiamo Lorenzo, tu non mi conosci, ma io sì perché di te mi ha parlato mio cugino Luca, dice che sei una forza della natura, uno grosso che mena tutti, un vero duro. Sai anch'io sono un vero duro. Non ho paura di niente, neanche del buio pesto della casa dei Loredan, che hanno una casa proprio nera, che quando con il Marco vado a saltare vicino al Piganzo, e lì c'è la casa nera dei Loredan, io lo proteggo. Perchè lui il Marco ha una tale paura, che si aggrappa con le unghie alla mia pancia e affonda la sua testolina fifona dentro la mia schiena, lì, sai no, in quella parte del corpo che la mamma quando accusa i dolorini alla schiena, chiama zona lombare. Intanto io faccio da scudo. A parte quella volta che pioveva e per terra c'era un tale paciugamento che mentre proteggevo il Marco, e tiravo fuori dallo zaino l'ombrello della nonna Maria, quello con le macchie di gheopardo, non so come, sono caduto, e sono scivolato sulle foglie impantanate. E sai, come capita spesso in questi casi di cadute, ho perso gli occhiali e non ci vedevo più tanto bene. C'era quasi buio e si sentivano dei rumori paurosi, di vento e pioggia insieme, e qualche lamento che secondo me proveniva dalla casa dei Loredan, anzi ci giurerei. E lì, bhè sai, lì un pò di cagarella l'ho presa pure io. E con il Marco siamo tornati a casa, più veloci della luce, roba da non crederci. E poi io mi sono infilato nel letto della mamma, nel suo petto morbido di pizzi e cotone. Lo so questa non è una cosa da veri duri, comunque è successa solo una volta, non ne ricordo altre.
Perché io, dicevo, sono un vero duro. Per esempio quando io e la Lisetta andiamo al cinema a vedere quei film sentimentali che piacciono alle femmine, bhè, e camminiamo lungo una strada che te la raccomando, ci sono certi malviventi, certi delinquenti. Bhè io sto dritto come un asse da stiro, con gli occhi attenti, e faccio passare il braccio sinistro dietro il collo della Lisetta, per tenerla al sicuro. E se qualcuno si avvicina, li mollo un destro che se lo ricorda per tutta la vita.
E poi bhè quando vado ad aiutare il papà in autofficina, dovresti vedere come sono bravo a riparare le macchine, con l'unto e il grasso dell'olio, che poi è un lavoro di responsabilità, che se non lo fai bene, poi i clienti li senti e tirano certe madonne che il babbo quasi si intimorisce. Io no, io li mando a quel paese, ad ogni modo non capita quasi mai, perché il mio lavoro lo faccio proprio bene.
Il problema zio Carlo, non so come dire, sai, non è una cosa facile a dirsi, ma quando sono solo mi piace piangere, mi godo da matti a farmi lunghi piagnistei che mi rigano le guance, e poi a tirar su lacrime con la lingua, come se la lingua fosse una paletta di plastica con cui i poppanti raccolgono l'acqua del mare. Piango in continuazione quando sono solo: per esempio nel sottoscala, ecco vedi, nel sottoscala, dove la mamma mi manda a prendere il latte, quando nel frigo è finito, mi faccio di quei pianti da far venire la faccia brutta e rossa come un pomodoro. Oppure piango sotto la doccia, che lì non mi vede nessuno perché tiro sempre la tenda. A parte questo io sono un vero duro, proprio come te.

venerdì 6 agosto 2010

Pompage

Accadeva sempre nella stessa maniera, e anche quella sera, come quasi tutte, aveva spento le luci intorno, si era sdraiata sul largo letto pieno di cuscini e aveva cominciato a leggere. Il rumore delle prime pagine che si sfogliavano erano un muto reclamo, e lui dalla scrivania si era avvicinato al bordo della sua lettura -Requiem, di Tabucchi- le aveva preso i piedi sulle ginocchia, e aveva cominciato a massaggiarli. Prima il sinistro, lentamente, con forza, premendo la pianta con i polpastrelli, lentezza artigiana, piedi come pasta di pane. Così funzionava, quasi ogni sera: lui la guardava, le intuiva il volto nascosto dietro al libro aperto, e con le mani continuava il paziente premere e allentare, scandendo movimenti e respiro come una nenia antica, come un rituale.
Ma quella sera accadde qualcosa. Ad un certo punto, da dietro l'ipnosi della carezza, lui sentì tra le dita uno strano scioglimento della tensione, ogni rigidità all'improvviso cadde, il piede non faceva più resistenza. Abbassò lo sguardo e per un attimo non poté credere a quello che vide: si era staccato. Il piede di lei si era staccato, e gli era rimasto in mano, grondante sangue. Lo sconcerto gli tolse la parola, e nel tempo del silenzio -brevissimi istanti- la reazione fu convulsa: guardò lei dietro al libro, lei continuava a leggere, non si era accorta di nulla, lui non pensò all'incongruità di ciò, non ne ebbe il tempo, nel suo petto salì un moto di paura mista a vergogna, deglutì, tremò, si guardò intorno, la sua mano libera trovò brancolando -chi sa come- un rotolo di scotch per terra, e con una rapidità e una precisione non umane glielo riattaccò, le riattaccò il piede, dieci giri decisi attorno alla caviglia.
A quel punto si fermò, immobile, guardando lei ancora assorta nella lettura, trattenendo il fiato. Sentiva che l'incredulità cominciava a risvegliarsi, guardava lei immobile e contemporaneamente gli tornavano alla mente le Lezioni americane di Calvino, vai a capire gli strani voli del pensiero in certi frangenti.
Poi, piano, adagiò gamba e piede sul letto. Si tirò su fino a poggiare la testa sul cuscino, a fianco di quella di lei. Le baciò la tempia, le disse "dormiamo adesso", e senza aspettare risposta spense la luce. Riuscì a prender sonno.
Il giorno dopo lei si era svegliata prima ed era andata via, il primo impulso fu di telefonarle, guardò per terra, lo scotch era ancora lì, quasi finito, il fondo del letto era imbrattato di sangue scuro, non era stato un sogno. Al telefono non riuscì a chiederle nulla di diretto, la voce era serena, no, non ho niente che non va, sì, ho dormito bene, perché non avrei dovuto? E anche dopo, a pranzo, quando la incontrò pareva non avere niente di strano, stava bene. Fecero insieme una lunga passeggiata, e quando finalmente si sedettero su una panchina lui raccolse il coraggio necessario, decise che ne aveva abbastanza di stare in un racconto assurdo, e glielo disse: "Colette, senti, stanotte ti ho staccato un piede."
"Eh?"
"Il sinistro, massaggiandotelo. Mi è rimasto in mano."
"..."
"E te l'ho riattaccato, pulendolo un pò dal sangue. Con lo scotch."
"Ma... Ma che cazzo dici?"
La reazione di lei fu furiosa. Si alzò il pantalone, si tolse lo stivaletto, e anche lei vide: il piede era attaccato alla gamba da diversi giri di nastro adesivo, tutto era sporco di sangue. Alzò gli occhi su di lui, con violenza.
"Ma sei un coglione! Dobbiamo andare al pronto soccorso! Lo scotch! Ma porcodio, lo scotch!"
Lui rimase, atterrito, balbettò qualche giustificazione mentre lei chiamava un'ambulanza con il cellulare. Lei non gli parlò più, l'ambulanza arrivò e li portò in ospedale, tentarono un'operazione ma era troppo tardi, l'infezione si era propagata e aveva mandato la gamba in cancrena, dovettero amputargliela fino a sopra il ginocchio. Povera Colette.

mercoledì 4 agosto 2010

zeppe

Lo vedi? Anche i piatti ormai sono quadrati, Dico a Lucia che continua a fissarmi in silenzio.
Poi si alza e accende una sigaretta. Per questo hai scritto mille volte sul muro ODIO LE SCARPE CON LA ZEPPA ?
No, le rispondo sorpreso. Ma preferisco i sandali intrecciati.

giovedì 22 luglio 2010

1/3

Mi sono sempre chiesto
quelli che parlano sempre in terza persona
è perchè si vergognano della prima?

sabato 17 luglio 2010

Nec tepidus nec calidus

Allegro, fanciul, qui noi porgiamo
a spersi rari naufraghi
la nota canzonetta iconoclasta.
La sugga il cicaleccio della via,
ne faccia strazio il cane nel pagliaio;
ed ebbro il battimosca
di Soave e di liquore mal digesto
gli orli del vaso infiori
d'Almagesto.

mercoledì 7 luglio 2010

July

Ho la cognizione di causa delle cose che accadono, almeno in superficie, [e] la sensazione della congiunzione mancante, come condizione latente di questa atmosferica irrequietezza: resto ancora o vado via? Il tuo corpo sudato mi appiccica, che non mi staccherei più senza portare con me almeno un po' della tua pelle, come simulacro o sindone del nostro abbraccio. Siamo il luglio della nostra deflagrazione, per questo abbiamo la consapevolezza delle cause, delle concause e anche delle condizioni che ci hanno portato ad accadere in quello che siamo, almeno in superficie (credo). Ho la febbre da caldo eccessivo, ho il velo d'afa sugli occhi, ho la propensione a liquefarmi, sfaldarmi, scambiare i miei umori con i tuoi. Andarmene via è un luogo che ha le panchine bollenti, le ringhiere abbaianti, le strade asfaltate di fresco, così sembra sempre che la fuga mi stia scappando avanti con i suoi piedi flaccidi e molli, mentre sbava la direzione che ha già preso, oppure mentre i sentieri si biforcano e gli orizzonti si sfaldano. Resto ancorato alla condizione contingente e mi limito a congiungere gli strati di cose che accadono, l'uno sull'altro, come fossi cemento a presa rapida o silicone sigillante o crema di cacao nel wafer (minimo 6%). La lingua è il senso dell'abbraccio, mentre raccoglie il sudore del nostro silenzio, è la temperatura che insieme produciamo, ma non c'è nessuna sensazione di fine in questa irrequietezza, nonostante le circostanze atmosferiche del nostro luglio.

lunedì 5 luglio 2010

Gobba a ponente

Mentre mi chiede un bacio, penso a cinque cose differenti.

la luna sembra una torta gialla tagliata a metà.
c'è caldo. quando la maglietta si appiccica alla schiena dopo le sei del pomeriggio significa che c'è molto caldo.
il verde dell'erba sotto le dita dei piedi fa il solletico.
domani è prevista pioggia.
le braccia incrociate hanno un preciso significato non verbale.

NO.

Con indiscussa educazione lo domanda allora per favore.
Sulla guancia, per favore.

Mi chiedo quanto profondi debbano sembrare i miei occhi in questo momento.
Spero sufficientemente profondi perchè chi ha portato qui i miei piedi e i suoi ci anneghi dentro piano.

venerdì 25 giugno 2010

Tra-slochi

Ho le tue costole sul mio sterno, il peso del tuo sonno sul mio respiro. Non ci stiamo muovendo, si muove il silenzio. Nero è il colore dei capelli che amo. Ho i tuoi capelli sul mio sudore, ma tu non hai le trecce sparse, siamo solo intrecciati nel sonno. Un cavallo si pettina le trecce in fondo al letto, così le lenzuola si perdono a terra, lui resta indifferente, io sto fermo. Questa è l'ultima casa che è la mia casa, penso già ad un'altra casa: tutta una questione di porte (chiuse) e patetici addii rimasti in sospeto. Ho la tua testa sull'ombelico, osservo la macchia sul soffitto, che non si dilata, non cambia colore, fa la macchia e basta. Mi sto distogliendo da qui, lascio la mia faccia nel tuo abbraccio, mi mangi la faccia, forse da un'altra parte mi chiamano (non lo senti?). Il tuo peso è il poco tempo che mi rimane qui, ho le cose da finire, la pelle da togliermi, c'è da farla finita e basta. In fondo al letto il cavallo mi guarda pettinandosi le trecce, nero è il colore dei capelli che amo, macchiate le pareti della casa che lascio.

martedì 15 giugno 2010

Retroalimentazione

IL TRAGHETTO MANGIAMERDA
NUMERO QUATTRO
,
primo numero monografico su
LA CITTÀ E LA PSICOSI SECURITARIA

è uscito.



A comprare le sigarette, ha detto -rasentando dal basso la banalità.

Se l'hai già avuto per le mani,
ti invitiamo a lasciare qua
un tuo giudizio
,
sul numero, sui testi, sulla grafica, sui disegni,
circostanziato e rotondo.

Se il numero devi ancora averlo, questua qua:
BOLOGNA: Bartleby, via S. Petronio vecchio 30/a
VERONA: *una località verrà indicata a breve*
Oppure scrivici.
Oppure tieni d'occhio questi dintorni: segnaleremo qui imminenti presentazioni.


Nell'attesa, benvengano anche i pregiudizi.

sabato 12 giugno 2010

guai a noi



A
: esce il numero 4 del Traghetto,
monografico su La città e la psicosi securitaria.

B: il Traghetto Mangiamerda domani è al BIRRA, a Bologna.

C: spillette.


venerdì 28 maggio 2010

REBUS (13, 3, 1, 5, 7, 2, 1)

indosso la maglietta con i pugni imbrattati di inchiostro blu.
righe orizzontali come quelle delle pagine spesse dei quaderni delle scuole elementari.
ho visto senza sorprendermi uomini propensi ad innaffiare di collirio i congiuntivi.
insubordinati senza speranza con una marcata tendenza alla stizza.
è il polline, maledetta primavera.
e la voce tradisce assoluta certezza nell’impossibilità di abbandonarsi al dubbio o alla speranza.
ho incontrato uomini con un odio specifico per gli spazi.
amanti piacevoli dotati della rara capacità di trasformare l’incostanza degli avvenimenti in abbracci sempreverdi.
quelli che tuttavia preferisco, sono gli uomini che non riescono a stare nel mezzo.
quelli che possiedono troppo o troppo poco.
uomini con la acca maiuscola, musicanti vagabondi.
convinti che le preposizioni semplici siano più o meno tante quante i sette nani.

domenica 25 aprile 2010

di Robert Burton

cosa ho
a che fare
con la medicina?

BINGO!

di Andrea Masotti

Quando sono entrati c'è stato un attimo di imbarazzo. Comprensibile. Io non mi sono fermato, non potevo fermarmi cazzodio, non potevo. Loro l'hanno capito, e adesso mi lasciano stare.
Tutto è cominciato in un inverno degli anni '90, all'Ariston proiettavano "A piedi nudi sul porco". Io sono entrato e ho raggiunto il mio posto in quarta fila, i primi fiati riempivano il buio della sala. Mi sono seduto e ho aspettato che la situazione si scaldasse. Al primo anale ho tirato fuori la verga eretta e dura, e ho cominciato. Da allora non ho più smesso.
La trivellazione del culo ha lasciato posto all'orgia, dall'orgia si è passati ai sadismi in lattice, un tripudio di falli dentro e fuori un tripudio di corpi, senza tregua, coriandoli di sborra disegnavano epicuree traiettorie nel basso cielo del cinema. E io sempre lì, a frizionarmi il cazzo con foga, i muscoli tesi e sudore freddo ai piedi. Mi masturbavo energicamente, l'erezione era granitica, ma qualcosa non andava. Non venivo. Non riuscivo a venire.
Il film è finito, le luci si sono spente, e io rimanevo lì, per ostinazione e per la foga che non cedeva, e lì sono rimasto, da allora.
Quel film è stato l'ultimo dell'Ariston, quell'anno il cinema porno ha chiuso, e quando tempo dopo hanno messo su il bingo mi hanno trovato ancora lì, nel mio posto in quarta fila, a masturbarmi. Operai gentili e pragmatici hanno chiuso la sala, e mi hanno lasciato nella penombra.
I mesi passavano e l'eccitazione non diminuiva, vivevo ogni giorno sempre sul margine del coito, con l'orgasmo in gola, dimenticato dalla fame e dalla sete, i sensi storditi. Forse più magro, più lento nei movimenti, con la schiena rachitica piegata su un pene perennemente fiero e sanguigno, di acciaio, a ripetermi con gli occhi chiusi "A piedi nudi sul porco" e tutti gli altri film, scena per scena.
E poi sono arrivati questi. Non so in che anno siamo, non distinguo il giorno e la notte, ho perso la cognizione del tempo. Quando sono entrati c'è stato un attimo di imbarazzo. Adesso sembrano essersi abituati a me, mi lasciano stare. Io piano piano ho ripreso vigore, tutta questa fervida attività intorno mi ha restituito freschezza, brividi di piacere scuotono lo stanco affanno di prima, solletico lungo la schiena, torno a maneggiare il cazzo con forza, su e giù, aumento il ritmo.
Forse quest'anno vengo.

io mi vergogno!

di Carlo Pigozzi

Dopo ore passate a spendere la mia vita, mi è rimasto solo un profondo senso di vergogna.
Tutto è cominciato ieri, appena nato, vicino alla stufa. Emil, mio padre, rientra dai campi e chiede a mama:
- cos'è questo?
- è tuo figlio Emil!
e fu così che divenni un bambino vero, non più un pezzo di legno, ma con la cane venne anche la vergogna, e da ieri non mi ha più abbandonato.

affittasi

a due passi dall'università
bilocale arredato
finemente ristrutturato
niente haiku

di Valeria Bigardi




EDITORIALE

L'articolo d'apertura è molto importante. Due parole: a che numepro siamo? Mezzo? Numepro? Per ora qualche consiglio attivo per iniziare al meglio l'anno nuovo.
Sul perchè, poco importa. Sul come, quando.
Morgan Freeman è ancora al potere, ma, ciò non ostante. Madonne e cicisbei, rieccoci. Non sarà un monografico. Nell'attesa

CLITOCYBE CLAVIPES

Il cappello di 3-6 cm. di diametro è di colore grigio-bruno, prima a cupola, in seguito diviene piatto con una protuberanza molto netta. I margini sono sottili e ondulati. Le lamelle spesse e spaziate fra loro sono nettamente decorrenti. Il gambo, sottile in alto, è ingrossato alla base. La carne è spugnosa: odora di sapone. È abbastanza comune nelle pinete e fra il muschio da agosto a novembre. Non è commestibile.

di Andrea Masotti


come partire

di Andrea Masotti


PARTE 1

«Secondo alcune teorie, per dissimulare la presenza autoriale e la paternità su idee e posizioni -tentativi di idee e posizioni- che il lettore può ritenere politicamente "compromesse", un buon metodo è metterle in bocca ad un personaggio fittizio, meglio se caratterizzato da tratti che non rimandino prepotentemente all'autore», disse Giacomo lo sciocco, sottolineando -con il gesto apposito- la presenza delle virgolette su "compromesse".
«E meglio ancora, aggiungerei, se queste idee vengono inserite in un dialogo», aggiunse fuor di condizionale Geremia, «un dialogo che sappia dare l'illusione del contraddittorio, ma che sibillinamente spinga verso l'unico esito possibile. Comunque Umberto Tosi è un coglione razzista.»
«Si Chiama Flavio Tosi, razza di sciocco.»

PARTE 2

Il raccontino poteva anche finire lì, incisivo e banale come una barzelletta. Ma a quel punto una voce baritonale si levò dal fondo del vagone (siamo in un treno):
«Siete patetici. Pa-te-ti-ci.»
Geremia e Giacomo lo sciocco si guardarono vicendevolmente negli occhi, interdetti. La voce continuò: «La metaletteratura ha rotto il cazzo! Basta! È ora di finirla!»
A parlare era stato Gregorio, il quale subito dopo si alzò in piedi e morì soffrendo tantissimo.

di Carlo Pigozzi e Valeria Bigardi


sabato 24 aprile 2010

LECCORNIE

di Andrea Masotti

Ieri mi si avvicina un amico di vecchia data (il 1983, era vecchia già allora. Che capodanno stanco, quell'anno), mi si accosta questo mio vecchio amico -il Teo Limone- e mi esplode nell'orecchio una panzana.
È nel suo stile, è sempre stato nel suo stile esplodere panzane, lì per lì (lì²) non ci ho nemmeno fatto più di tanto caso. Poi ci ho pensato su.

Esiste una tribù, nel sud della Nigeria, dove lo status sociale è determinato dagli sguardi. Una determinata occhiata può farti salire al vertice della piramide, un aggrottarsi di ciglia può comportare la morte.

Ho invitato il Teo Limone in cucina. Non ho detto niente, mi sono alzato, e l'ho invitato a seguirmi in cucina. Su ogni superficie ancora non piegata al diabolico gioco dell'entropia, chilometri e chilometri di leccornie.
"MANGIA", ho detto. ("Mangia!", ho tuonato.)
Il povero Teo Limone ha spalancato gli occhi,
e ci piace ricordarlo così.
Io sono uscito, con le mie ormai proverbiali scarpe.
Sono andato in via Pallone.

come fare ginnastica rimanendo (imobili) immobili

di Carlo Pigozzi


A) provate a correre
B) pensate un sacco a voi che sudate, finchè non sudate
C) cercate di mangiarvi la lingua
D) provate ancora a correre
E) contate mentalmente fino a dieci
F) cercate di toccarvi il naso con la lingua
G) correte
H) portate le lancette dell'orologio alle 15:37
I) rostitute
L) andate a casa
M) usate delle pile
N)

il paritetico

- lei ha questa malattia
- quale, questa?
- non proprio, ma le somiglia
- non la voglio
- poteva pensarci prima
- non accettiamo rimborsi
- la merce pagata...
- ape!
- due di queste dopo cena
- e se non ceno?
- si adatti
- la ringrazio gentile estraneo
...
poco dopo bussano alla porta

di Valeria Bigardi


di Valeria Bigardi


firenze (W. P.)

di Carlo Pigozzi

tre giorni sono lunghi
il trucco è non pensarci.
basta inzuppare un dito
nello joghurt, e lasciar
passare i secondi e poi
i minuti.
classificazione dei nani
prima viene eolo
e poi via tutti gli altri
a seguire, fino all'ultimo
nano
hitler

sabato 17 aprile 2010

La politica del parafango

Destra si prende una rivincita.
E pazienza per i graffi, i cerotti, il male pulsante.
Non avrà lo stesso sorriso disarmante di Sinistra,
spalancato come voragine,
affamato di indiscrezione,
bianco come un foglio senza righe.
Potrà cibarsi di analgesici però.
Reclamare attenzione.
Decidere su quale lato dovranno appoggiarsi i sogni.
E trascinarsi svogliatamente accompagnata dal ritmico tap-tap.
Destra si veste di blu.
Per farmi perdere la metropolitana.

domenica 11 aprile 2010

Alloro

Osservo una siepe d'alloro, non sono Leopardi, non vedo niente oltre la siepe. C'è il cielo sopra, ne sono sicuro, anche se per poco, poi scompare. Forse me lo metterei in testa l'alloro, ma non sono Dante, nemmeno Petrarca, nemmeno il terzo con la corona: non me lo meriterei, questo è certo. L'alloro ha un buon profumo, le mie lenzuola no, non le cambio da mesi. Mi viene sempre in mente il pollo arrosto quando annuso l'alloro, che non ci posso proprio fare nulla, mi viene sempre l'acquolina in bocca e, se sono al mercato, mi dirigo automaticamente verso il camion con i polli allo spiedo e ne compro uno. Questi tagliano la siepe, come se fosse burro, ma con il decespugliatore. L'alloro non canta come quelli che lo portano in testa, forse piange, ma io non lo sento. Oltre la siepe forse c'è il buio, la zuppa, i cavoli a merenda, ma io che ne so? Non sono mica Leopardi, nemmeno Giulio Cesare, nemmeno un cuoco. Io con l'alloro non ci faccio niente, me lo posso anche mettere in testa, così faccio l'albero come nelle recite alle elementari (mi veniva davvero bene). Annuso l'aria, la siepe è tagliata, ora vedo un po' meglio di là: ci sono le macchine parcheggiate, i motorini anche. Qui non siamo a Recanati, l'infinito non fa per noi, nemmeno l'alloro, a noi ci basta il pollo arrosto con le patate, anche quando siamo pessimisti. Ho una corona d'alloro secca in camera, era la mia, quando mi credevo ancora laureato, ora non lo sono più: taglio la siepe.

domenica 21 marzo 2010

Idiot

Insorgo contro quella mia parte incapace di concedersi una frattura. Non lascio spazio alle emozioni, nemmeno alle mozioni, non esiste alcuna pulsazione inconsulta. Anelare un infarto è reazione quantomai macroscopica (lo ammetto). Dimentico la mia gioia sul davanzale, come una torta di mele lasciata raffreddare al sole di marzo. Dimentico la distanza, quella giusta, con le cose, fraintendendo così anche il mio andirivieni tra insorgenze, sporgenze e contaminazioni. Sciopero contro quella parte vigliacca che si arresta al limite del baratro, poi niente, nemmeno un tuffo: puff! Con le braccia incrociate cammino in cerchi concentrici che si dibattono alla luce falsa delle candele, aspettando l'attimo in cui un vento qualsiasi sarà in grado di soffiare sul davanzale spegnendole. Dimentico tutto (ammettendo che sia possibile), dimentico di essermi dimenticato le parole giuste sotto l'abbraccio, le ho dette altrove con il fiato corto, il fiato sul collo. Protesto contro l'impossibilità di vanverare senza contegno, nessun ritegno (ovvero), ho ancora un debito con il ricordo. Mi resta la chiave dell'enigma in un cassetto (lo so per certo) eppure mi limito a guardare il cielo oltre il davanzale, quella parte che non si lascia buttare, gettando un seme verso la forza di gravità che non può tradire il suono del mio corpo-grave: puff!

martedì 9 marzo 2010

Quando il vento si misura in cappelli rotolati via

Con rassegnazione ci troviamo ad affermare.
Con rammarico siamo costretti ad ammettere.
Non ci sono soluzioni.
Esistono leggi fisiche precise e codificate.
La mente umana raramente si abbandona al caso, sfida il pregiudizio, mette in dubbio l’autorevolezza.
Più per più fa più e più per meno fa meno. La matematica non è un'opinione. Si alzi in piedi chi ha il coraggio di affermare il contrario.
Abbiamo cercato il logico.
Nei cassetti della cucina, dietro i cespugli, sotto il tappeto.
Nelle tasche del cappotto, sotto il lavandino del bagno, nel bagagliaio della macchina.
Non l’abbiamo trovato ma rimaniamo fiduciosi.
Con una discreta dose di certezza, ci permettiamo pertanto di mettervi in guardia.
Vi invitiamo a predisporre le dovute precauzioni per tutte quelle volte che.
Se piovesse, lo farebbe in orizzontale.

martedì 2 marzo 2010

Un cataclisma

C'è un cataclisma nel mio letto, mi giro, lo accarezzo. Ho la bocca sul cuscino, ho le bave alla bocca, ho il cuscino incollato alla fronte. Qualcuno sta sbavando sul mio dormiveglia: non ci fare caso, penso, invece lo faccio (purtroppo). Il letto è sudato come la mia voglia di cambiare posizione; poi mi accorgo di lei. Ecco allora che le soffio sugli occhi qualcosa, forse rovino un sogno, forse no. C'è la fine dietro l'angolo, ne sono certo, e dietro la fine c'è una coda, un cappello a sonagli, un serpente. La fatalità è un caso, mi accorgo di non aver mai (voluto) la voglia di avere scelta, così continuo a perseverare nel sonno. Il cataclisma attorciglia il letto, il mio cranio suda, le sue ciglia cigolano ma non sbattono. Lei cambia posizione, io accarezzo lo spazio vuoto che si è lasciata sfuggire. Premo la bocca sul cuscino incollato alla fronte; non ho avuto mai troppa fortuna (penso) con l'ironia della sorte. Dietro la fine c'è un angolo, dietro l'angolo uno spiffero, il nascondiglio del cataclisma (credo), o uno spiraglio.

domenica 28 febbraio 2010

Al di qua, al di là. Dans une penderie

Al di qua del bancone di legno chiaro ci sono trespoli d'acciaio e appendiabiti numerati da uno a trecentosessantadue.
Cappotti di finto visone, giacche da sci, maglioni che profumano di dopobarba, sciarpe di morbida lana, borsette-tutte-fibbie, cappotti nascosti in cappotti nascosti in cappotti che se si può risparmiare è meglio, cellulari che suonano a vuoto, portafogli con cui pagare all'uscita, sigarette e accendini, chiavi della macchina che chissà dove le ho messe.
Al di là del bancone di legno chiaro c'è lui. Età indefinita ma più giovane che no. Si avvicina con, appollaiato sulle spalle, lo sguardo d'attesa dei suoi quattro amichetti quattro. Appoggia una giacca nera sul bancone. Occhi negli occhi.

- Sei SCOPABile?

Per reazione difensiva-offensiva. Occhi negli occhi sputo uno

-Scusa?

Lieve imbarazzo, le mani che sudano, comincia a balbettare.

- Ehm, E, h, m, E, è u, è un, è un diSCOPUB?

Ballerini che ballano, anche che ancheggiano, culi che sculettano. Rispondo.

- Si.

(Musica latinoamericana in dissolvenza, un foglietto a quadretti stropicciato con il suo nome e numero plana volteggiando nel cestino. Al di qua del bancone l'appendiabiti dondola avanti e indietro. Al di là del bancone la giacca nera gli mostra le spalle).

mercoledì 24 febbraio 2010

Ore di sonno (tre).

Mi piace quando la luce è così intensa che devi strizzare gli occhi.
Mi piace quando nella giacca a vento ci cominci a sudare.
Mi piace quando è giorno di mercato e con in bocca il sapore del caffellatte hai nelle narici l'odore del baccalà e dei carciofi sbucciati.
Mi piace quando il mondo si muove come in un acquario al ritmo della musica che suona nelle mie orecchie.
Mi piace quando il tram è in ritardo e io vado in bicicletta.
Mi piace quando finisce il detersivo e i piatti non li puoi lavare.
Mi piace quando le caviglie si muovono su e giù nei calzini a righe.
Mi piace quando lo zucchero indugia sulla superficie del caffè.
Mi piace quando il vento ti fa le guance rosse.
Mi piace quando i tulipani sbocciano rossi.

Se non fosse febbraio potrebbe essere marzo.
Ma anche gennaio.
E perchè no, luglio.

domenica 21 febbraio 2010

CHE POI NON SI DICA

Valeria cammina lungo la spiaggia in cerca di conchiglie. Mentre guarda la sabbia incontra Gesù.
- Ciao Gesù.
- Ciao Valeria.
- Cosa fai?
- Vado a pesca.
- Di uomini?
- No. Trote.
- Ah, ok...
- I gay pub sono ancora chiusi.
- Come!?!
- Trote. Salmonate.
- Allora, buona pesca Gesù!
- Grazie. Buona passeggiata a te Valeria e fai la brava.
- Anche tu.
- Va bene.
Poco dopo Valeria trova la conchiglia ed inizia ad ascoltare il mare.


A Valeria con tutto l'affetto che ho sperando che basti.

martedì 16 febbraio 2010

Una promessa è una promessa

Nel sorriso fotogenico alto quattro piani si coglie la solida certezza delle trovate geniali.

"Un impegno serio.
Più lavoro per i giovani e per i 40-50enni".

Quasi quasi piango.

domenica 31 gennaio 2010

Qualsiasi cominciamento

Comincerei dalla fine se fosse possibile, ma non si tratta di un giallo, nemmeno di un noir: è solo una cosa che comincia come è già finita. Mi sembra tutto così condizionale, anche le eventualità, eppure qualcosa dovrà pure accadere di nuovo, non dico di insolito, mi basterebbe anche solo uno scherzo (del destino, s'intende). La neve, la costante è sicuramente la neve: nevica come se non avesse mai smesso. E' come se, tanto per dire, ci fosse un buco tra la fine di prima e l'inizio di adesso, come se, nonostante l'assenza di qualcosa, il nastro continuasse imperterrito a scorrere, quasi ci fosse il cinematografo fuori dalla mia finestra. Proiettano: mia nonna che compie novant'anni, quasi un secolo (penso), io che guardo la sua dentiera prendere posto tra le sue gengive, le candeline spegnersi. Proiettano anche: il ghiaccio sulle strade, passami il sale, attento si scivola, oggi non vado a scuola. Allora comincerei dal destino, se fosse possibile, uno qualsiasi, anche assegnato d'ufficio, fa lo stesso, oppure trovato nel cassetto dove tengo le bollette pagate, i mestoli, alcune foto. Comincerei proprio da lì per riempire l'inizio, poi il resto si riempirà da sè (una speranza, s'intende), sempre che la neve la smetta di nevicare e di confondere: tutto uguale.

venerdì 22 gennaio 2010

Manicaretti

Il cravattino gli sta un gran bene. Se lo stringe, si controlla la barba appena fatta, infila la giacca di lino e se ne esce dal suo appartamento, poco dopo pranzo. Sul ballatoio del piano sottostante incontra la signora Elvira, ferma nella tromba delle scale, sommersa da tre pesanti sacchetti della spazzatura. Senza perdere un secondo di tempo Piero interviene, aiutandola a portare fino al piano terra i sacchetti, per poi congedarsi con un sorriso. Elvira ricambia prodigandosi in ringraziamenti, e convenendo col portiere del palazzo che Piero è proprio un ragazzo perbene, e sa come comportarsi con le donne di una certa età.
Sono le 14:08, e Piero è diretto al supermercato dietro l’angolo: deve fare la spesa per la cena, aspetta ospiti per le 21:00, e ha tutta l’intenzione di cucinare dei gustosi manicaretti. La lista della spesa comprende finocchietto, besciamella, cotto di Praga, erba cipollina, controfiletto di manzo, formaggio caprino, burro altoatesino, uova di storione, avocado, spremuta di pompelmo rosa e pane di Altamura. La coda è sempre lunga al reparto gastronomia, considera Piero, ma del resto che ha da fare? È pur sempre estate, e di lavoro si torna a parlare a settembre, la contabilità della banca può attendere. Certo che ventisette persone davanti non son poche. Una coda lunghissima e inattesa, quella del supermercato di Via Nazario Sauro, che si snoda ormai lungo tutto il corridoio centrale del negozio, dal reparto pelati a quello gastronomia, passando per il banco surgelati.
Alle spalle di Piero c’è un anziano chiuso in un cappotto pesante, coi capelli arruffati, Povero, sarà un vagabondo, pensa il ragazzo, meditando se cedergli il posto o meno. Ma all’improvviso, a sorprenderlo assorto nei suoi pensieri, arrivano delle voci irose, di due donne che si contendono il posto dieci metri dietro di lui. Sono arrivata prima io – Se lo scordi il posto, non ho intenzione di passarci la vita, in questo supermercato. Piero abbandona il suo posto, facendo segno con la mano all’anziano di avanzare pure senza problemi. In fondo al supermercato c’è tensione: le due donne non accennano a smettere, quando ecco che il prontissimo Piero appare in fondo alla coda, con le braccia allargate in posa messianica, dicendo: Signore, se non vi dispiace, se permettete, mi metto io in fondo alla coda, cosicché avanzerete tutti di un posto, e non ci sarà motivo di litigare oltre. Le due donne, incredule, un poco umiliate da tanta generosità, senza proferire verbo avanzano lasciando l’ultimo posto a Piero. Non hanno più il coraggio di guardarsi negli occhi a vicenda.
Solo all’alba delle 20:14 Piero rientra a casa. Il suo è stato un pomeriggio pesante ma a suo modo esaltante: ha affrontato una coda senza fine, lasciando passare avanti tutti, uno alla volta.
Prepara la cena per tutti gli invitati.
Sono le 21:03 e il cibo è caldo, pronto da sevire.
Alle 23:25 non è arrivato ancora nessuno, e Piero non ha toccato cibo.
Alle 23:58 Piero sparecchia, congela gli avanzi della cena, spegne le luci di casa.
Venti minuti dopo, sta già dormendo.

Posologia della gioia 2 (due). Prima persona singolare.

dieci gennaio duemiladieci.
aperte le virgolette.
ciao a tutti,
penso che quest’anno per me sarà un anno intenso. Io e il mio partner abbiamo deciso di sposarci quest’anno, probabilmente ad agosto di quest’anno. Stiamo pensando di fare una semplice cerimonia in un’isola greca. Fatemi sapere se avete altre idee riguardo al matrimonio. Sentitevi liberi di partecipare al nostro matrimonio se ne avete voglia.

http://www.santoriniweddings.net/Civil-Santorini-wedding-Packages.html

Sto pensando di scegliere questo pacchetto:
- domanda di matrimonio
- spese connesse alla concessione della licenza di matrimonio
- assistenza per i documenti essenziali
- prenotazione della data
- incontro pre-matrimonio per organizzare tutti i dettagli del matrimonio
- due testimoni necessari per la cerimonia (in omaggio)
- rappresentante della nostra agenzia durante la cerimonia
- macchina per arrivare alla cerimonia (in omaggio)
- corone di nozze fatte a mano
- due asini o cavalli per arrivare al luogo della cerimonia
- due musicisti locali
- dolci locali fatti a mano
- vino tradizionale
- servizio video e foto professionale
- bouquet della sposa e fiore all’occhiello per lo sposo
- fiori per decorare la tavola durante la cerimonia
- crociera di un giorno (combinazione di escursioni via terra e via mare. Visita di tutta l’isola in un giorno, con una crociera di mezza giornata e vista del tramonto).

Costo totale 3200 euro.

Saluti,
Kelly.
chiuse le virgolette.

mercoledì 20 gennaio 2010

Posologia della gioia.

ho uno spiffero in testa.
non è un buon segno, ma sto cercando di essere ottimista.
un ragazzo trascina il suo cavallo con fatica estrema.
gambe larghe e sguardo fiero.
inciampa sulle strisce ma prosegue senza battere ciglio.
è il modo migliore per non far cascare il mondo, penso.
all’angolo c’è un negozio che vende solo surgelati.
pratiche monoporzioni. carrelli di vite al microonde.
ho comprato il prezzemolo: in questo periodo sul balcone non cresce.
dietro al mio ascensore dorme un uomo.
la mia bicicletta dentro all’ascensore non ci sta.
l’ascensore sale a scatti facendo sinistri rumori di lamiera grattugiata.
ora smetto di parlare del mio ascensore.
anche perchè la mia bicicletta non ci sta.
tre piani, cinquantadue scalini.
morirò di un tumore ai polmoni respirando tutta quell’aria spessa.
oppure di infarto trascinando le mie due ruote su per di qua.
oppure di malumore.
ma sto cercando di essere ottimista.

giovedì 7 gennaio 2010

Atti degli Apostoli - 9; 11; 13-28

Elisabetta, pur conscia del rischio di inciampare nell'autoreferenzialità, si svegliò anche quella mattina.
Il peggio è passato, si disse, e si alzò senza smettere di stringere Marcello.
Marcello era il suo primo fidanzatino, morto di quel brutto male ancora in prima elementare. In obbedienza alle sue volontà, il bimbo era stato imbalsamato, e la madre aveva deciso di lasciarlo ad Elisabetta. E com'è come non è, Marcello aveva smesso poco a poco di essere un feticcio del ricordo, ed era diventato semplicemente il suo peluche preferito, con cui dormiva ogni notte.
Va be.
Il punto è che i cuscini andavano sprimacciati, come puntualmente si disse Elisabetta soppesandoli con lo sguardo: "I cuscini vanno sprimacciati, il verbo deve prendere aria, lo merita, è davvero un bel verbo", e mise tutti i cuscini dentro il grande zaino, uscì e cominciò a camminare verso la campagna.
La cruda campagna d'inverno, la terra dura e fredda e i fili d'erba che si spezzano come dita ghiacciate sotto i piedi di Elisabetta, il sole pallido e lontano, aria dura e fredda e senza profumi che entra nel naso con la forza del nord, entra a violentarle il naso, Elisabetta cammina con lo zaino pieno di cuscini sulle spalle, cammina nei campi piatti, la bruma le taglia le gambe e la fatica le spezza il polmone.
Ah, inverno, prendimi.
E invece: eccola lì, ad un certo punto, dietro il grande cespuglio di tabasco, la sgradita epifania. (Succede sempre così, porcocane, che uno butta una cosa e poi emuli incivili cominciano a imitarlo, e va a finire che un bell'angolo di pianura diventa una discarica. E poi, che cazzo, ma a chi mai può venire in mente di venire a scaricare qua, proprio qua, in mezzo al nulla? Ma porcocane.) Dietro il grande cespuglio di tabasco, solitario in mezzo ai campi arati, c'era una carcassa di computer.
Elisabetta si avvicina, scansa i rottami del monitor, pesta con stizza il mouse rotto, e a quel punto li vede: sparsi tutto intorno, nella terra, decine e decine di files.
Incuriosita, si china a raccoglierne uno. Questo:




Capite bene come a quel punto non poteva non venirle in mente la massima stoica secondo la quale l'esistenza è una prigione con la porta sempre aperta. Inutile lamentarsi: possiamo uscire in qualsiasi momento.