pudenda

giovedì 20 marzo 2008

Oh capitano, mio capitano!


Grave lutto per i natanti di tutto il globo: se n'è andato Capitan Findus.

Sarai sempre il nostro capitano!

La redazione in cordoglio.

mercoledì 19 marzo 2008

Voteresti un partito con l'acronimo di una bestemmia?

Dopo operai, confindustriai, prefetti e perfetti ecco l'elenco di coloro che sono stati esclusi per un soffio dalle liste del Pd:

- Monsignor Milingo
- Chanel Totti
- Pegasus
- Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim (detto Paracelso)
- La squadra degli All Blacks
- Barak Obama
- La foresta pluviale
- Mr. Bison, Blanka e Ryu
- Menenio Agrippa
- Il figlio di Bernardo Provenzano
- Piersilvio Berlusconi
- Le scoregge silenziose
- Stefano Bettarini
- Salvo (Grande Fratello 1)
- Giampaolo Pansa
- Moreno Morelli
- Silvio Muccino
- Gabriele Muccino
- La Coppa Campioni
- Ermanno Muccino
- Hattori Hanzo
- Il sorriso di Cameron Diaz
- Enrico Letta
- Gianni Letta
- Domenico Dolce
- Domenico Gabbana
- Un negro
- Maurizio Costanzo
- Show
- Gli amici di Maria de Filippi
- Il Lion (il club)
- Il Lion (lo snack)
- Il vino Sangiovese
- La sifilide
- Paola Binetti

giovedì 13 marzo 2008

Il Cacace Telamonio

di Enrico Mazzardi

[...]
Del fervor dell’atra bile ribollente
il quadricipite riggonfio e li occhi
venati, bava schiumante dalle fuocate
froge, il gran Cacace riversossi
for de la tenda dilli accampati
pugnatori de la ellade unita.
No del Gamennone il ritegno
nel preferir l’inviso Achillide
no l’Odissiaco susurro
no l’idioma tersiteo
pursempre sganghero
no del Nestore caro il consilio
il trattennerol.
Si truò, sine coscientia alcuna
ne lo sparuto de li polli recinto.
[...]
Ah! dissennato Telamonio.
Veh!
Nol dardo parideo
Nol pugno d’Ettore
fatali il furonno.
[...]
Deh!
Laccheffù l’orrida zampetta:
sulla giugula del baldo argivo
calò commo il silentio della obscurità.
Truò fin alle sue fatiche
dalla pennuta torma sopraffattoh.
Ch’ei ingoraba li polli esser a digiuno.
[...]


Tratto da una imprecisa, incauta, travisante traduzione dell'Iliade di cui rimangono pochi frammenti.
Ignoto l'autore.

C'è chi dice che Vincenzo Monti (a causa di una epsilon fuori posto) avesse frainteso l'intera opera, in una prima redazione poi eliminata.
Questo è quanto si salvò del falò prontamente appiccato per lavare il mondo da tale sozzura letteraria.

Da più parti sono invece pronti a giurare che sono stato io a scriverla, a 16 anni, annoiato da una lezione di Epica in quarta ginnasio.

Ancora razzismo, è ora di dire basta


Non so dire quanto sia grande l'indignazione. Non lesineremo toni altisonanti e dita levate al cielo, è ora di farla finita, e di dirlo chiaramente. Perchè c'è anche questo: dove riporre l'indignazione? Nel fatto, di per sè terribile, o nell'intollerabile evidenza che nessuno ne parli? Carichi di rabbia per questa indecente omertà, ne parleremo noi.
Stiamo assistendo a un inqualificabile atto di vero e proprio razzismo, passato sotto silenzio da mass media e istituzioni. Le discipline sciistiche sono vietate agli atleti di pelle nera. Proprio così.
Strale di leggi razziali mai abrogate? No, il divieto ha solo una ventina d'anni, è nato in seno ad una olimpiade già moderna, e risulta tuttora in vigore. E si giustifica nel più lombrosiano dei modi, con appelli ad una suppostamente inadatta conformazione fisica, ad un'antropologia dal sapore ottocentesco, fino ad arrivare a vaneggiamenti su "le innegabili incompatibilità cromatiche tra una cute scura e il manto nevoso, notoriamente candido." Tutto ciò non meriterebbe commenti.
Non fosse che la cosa ha rischiato almeno due volte di venire alla luce, in due episodi degli anni '90 debitamente seppelliti, mai andati oltre il trafiletto sulla pagina folkloristica di qualche giornale locale o un volatile comunicato dell'ansa. Nel '91 e nel '94: due atleti di colore, Arek Bumbasa e Lumbaa Finidal, al soglio del professionismo, con buoni risultati in patria (Finidal, che soleva allenarsi sui pendii del Kilimangiaro, era sopprannominato "la pantera della neve"), hanno subìto due sorti in qualche modo analoghe, tanto tragiche quanto sospette. A pochi passi dal definitivo ingresso nell'empireo atletico occidentale, la sorte li ha fatti fuori: il primo, investito da un pirata mai rintracciato, ha perso una gamba e la vista; il secondo è finito in una clinica psichiatrica dopo essersi visto massacrata l'intera famiglia da un folle. E sono gli unici due episodi noti, faticosamente noti: di quanti altri non sapremo mai nulla, non è dato di sapere.
E poi l'ultimo, cui è dovuto questo articolo: recenti indagini su un ingente ammanco nel bilancio consuntivo della FES, la federazione sciistica europea, hanno portato a scoprire l'esorbitante donazione fatta a Liminek Burbuna, promettente sciatore keniano, ritiratosi improvvisamente e inspiegabilmente subito dopo dalla scena dello sci, e ora letteralmente irrintracciabile.
Non ci interessa costruire dietrologie: la legge esiste, i più alti dirigenti non hanno voluto rispondere alle nostre domande, i fatti parlano da soli. Stia al lettore stabilire le analogie. E stia al lettore, se ancora esiste una cifra dell'umano, indignarsi. E non far cadere nel silenzio queste verità che il potere cerca tuttora di zittire. E' ora di dire basta.
No dai, non è vero.

lunedì 10 marzo 2008

TEORIA CINETICA DELLA STUPIDITÀ

ovvero della necessità dell'esistenza e dell'opera del traghetto mangiamerda

di Riccardo Artoni


Come sostenuto da autorevoli studiosi, stupido è colui che procura danno a sé e agli altri, mentre è intelligente chi procura il bene proprio e di chi gli sta intorno. Trascuriamo qui la trattazione biassiale del Cipolla [1], molto ricca e interessante, per derivare un modello più semplice all'occhio. Recupereremo tale ricchezza in un esempio finale. Dall'analisi dei casi della vita si può evidenziare che, qualora uno stupido incontri per caso un intelligente, esso provoca (con gioia o meno? A noi non è dato saperlo) la rovina di entrambi: si può esprimere ciò con il formalismo:

dove con X si identifica il fine ultimo, la merda quale esemplificazione della scoria o residuo secco che segue alla rovina. D'altra parte, qualora un essere intelligente incontri uno stupido, egli non può che riversare su di esso (malvolentieri? Ingenuamente?) il bene che egli produce in soprannumero per sé e per gli altri.
Tale processo necessita però della presenza sul campo di quel particolare cibo spirituale che permette all'intelligente di esercitare tale benefico influsso. Non ci preoccuperemo di investigare in questa sede quale sia la natura di tale cibo; ci si accontenterà di chiamarlo C. Pertanto si ha:

Ovvero l'intelligente nella sua azione disinteressata moltiplica il numero degli stupidi. In misura diversa e con finalità diverse le due specie devono riprodursi, i primi perché così recano il bene a se stessi, i secondi perché, fondamentalmente, "la madre de' grulli l'è sempre gravida". Così, considerando che entrambe le categorie abbisognino del suesposto cibo per riprodursi, si può scrivere:

Inoltre, come tutti, senza distinzione, chi è creato torna nella materia bruta prima o poi (e senza cena):

è ben chiaro che il nostro piccolo mondo, come il grande mondo che contiene chi scrive, se descritto solamente da queste 6 relazioni, è destinato a finire tutto in discarica dopo poco tempo, senza neppure prospettive d'incenerimento e conseguente produzione e dispersione di composti tossici cause di altri fenomeni di rimozione della specie S e I non trattati in questo studio.
Pertanto, acciocchè il sistema immateriale descritto possa, in potenza, vivere in eterno, occorre postulare una relazione del tipo:

ovvero, è dovere dell'intelligente trasformare la merda in cibo spirituale.
Si è così qualitativamente dimostrato il seguente

TEOREMA: in ogni società che si rispetti e che tenga in qualche conto la propria sopravvivenza fisico-spirituale, è necessario l'emergere di un processo di trasformazione della merda in cibo spirituale. Tale processo è definito l'OPERA DEL TRAGHETTO MANGIAMERDA.

È pertanto direttamente ricavabile il seguente
LEMMA: Acciocché sia possibile l'OPERA DEL TRAGHETTO MANGIAMERDA, è necessario l'esistenza del suddetto TRAGHETTO MANGIAMERDA.

COMMENTO 1. L'emergere del traghetto mangiamerda non può che avvenire in un oceano di guano quale frutto di un cambiamento strutturale del sistema descrivibile attraverso una biforcazione seguita alla variazione di un parametro nascosto che si lascia indovinare al lettore.
COMMENTO 2. Metodi Riproduttivi e Contraccettivi. Posto che tali metodi non funzionano sugli stupidi, i quali trovano sempre il modo per riprodursi in ogni dove (si pensi al caso Ferrara, nato dall'incontro sodomitico di un pastore tedesco di nome Joseph e di un elefante ariano dai denti marci). Si spera che la scienza trovi un freno, prima o poi, per tale epidemia. A tal proposito si ricorda che le difficoltà scientifiche in questo campo partono (anche in ragione degli strani fenomeni di moltiplicazione) dalla definizione incerta del regno di appartenenza di questi esseri. Per quanto riguarda i metodi più sicuri di contraccezione per la specie I, è garantita dalla stampa specializzata la metodologia seguente: video di Porta a Porta con Ferrara che pronuncia, sbavando dalla sua faccia larga di merda con una certa concupiscenza affamata, la parola feto.

COMMENTO 3. Ipotizzando reazioni elementari (?) tra le specie, l'andamento del sistema nel tempo può essere molto vario a seconda della scelta delle costanti cinetiche: il sistema può tendere alla morte generale, può giungere ad un valore stazionario ma vivacchiante, oppure più simpaticamente può assumere un comportamento oscillante. In figura 1 si mostra un risultato del modello complicato dalla presenza di altri attori (ma che non cambiano il comportamento qualitativo del sistema) come suggerito da Cipolla [1]; si nota come la merda sovrasti tutto, pur avendo il sistema un comportamento ciclico, e come ovviamente gli stolti siano sempre la maggioranza del genere umano (umano?).



Figura 1. Siamo nella merda fin qui. Amen.


Riferimenti Bibliografici:
[1] Cipolla, C. Allegro ma non troppo, Il Mulino, Bologna, 1988.
[2] F. Moccia. Tre metri sopra il cielo, Feltrinelli, 1992.
[3] A. V. C. Berbiguier de Terre-Nueve du Thym. Les farfadets ou Tous les démons ne sont pas de l'autre monde, Carpentras, 1821.
[4] A. Sivak, L. Coco. Le sante stolte della Chiesa russa. Roma, Città nuova editrice, 2006.
[5] R. A. Fortey. The ordovician trilobites of Spitsbergen. Oslo, Norsk Polarinstitutt, 1974-1975.

di Aleksej Kručenych

arrampicantesi
per il filo diretto
degli uccelli

Canta, vita mia

di Sergej Sarsun



Merda stronzo. Andato a letto con Santa Vergine. Mai
andato a letto vergine. Mai andato a letto. Miseria fame
sete. Merda stronzo. Abiti rotti altri. Spalle larghe ventre
grosso spalle sottili ventre tubercolotico spalle pieghevoli.
Accettano. Profumo merda frutta. Succo pedestre americano
tetto gratis. Letto alla frutta. Libri assenti. Colori non
regolati. Solitudine sconvolgente. Presenza disturbante
(m'avvicinerà adorata prostituta?). onoranze quotidiane.
Libertà eguaglianza fraternità... Disertano seccatore. Essere
gaio (bocca tappata). Avere muscolo ridanciano. Guardare
diritto. Parlare franco. Essere calmo. Essere astuto. Essere
ardito. Non disturbare. ... M'avvicinerà adorata prostituta?

Il Coito della Lavatrice

di Enrico Mazzardi

Questo è un brevissimo racconto di fantascienza autobiografica. Ovvero una rielaborazione di reali ricordi d’infanzia, in cui l’elemento fantastico inserito è chiaro fin da subito: le lavatrici non lavano piatti. E mi scuso fin da ora con la trascurata categoria delle lavastoviglie.


Erano le 14 e 32 quando mi svegliai sul sedile anteriore della station wagon di mio padre. Avevo 9 anni compiuti da una manciata di giorni e per regalo i miei mi portarono allo zoo-safari, che era vicino alla località dove stavamo trascorrendo gli ultimi giorni di vacanza. Ero decisamente emozionato all’idea di vedere dal vivo le bestie di Piero Angela. Leoni giraffe tartarughe porcospini licaoni leopardi capre ghepardi lavatrici pinguini mannari pastori maremmani pappagalli Delfini tigri elefanti ippopotami pangolini ippogrifi topi alati bradipi e il figlio di Piero Angela, quello che parla a gesti ma dicono abbia oramai il pollice opponibile (cosa non può l’evoluzione). Continuavo a chiedere siamo arrivati – no – quanto manca – poco – vabeh ok intanto mi bevo un altro succo e presi in mano il barattolo e me lo sorseggiai di gusto fino ad aspirare rumorosamente il fondo della confezione con un compiacimento tutto infantile stampato sul volto. Se Dio vuole dopo 3 interminabili minuti arrivammo al cancello, i miei pagarono l’ingresso e varcammo la soglia di quel mondo popolato da bestie. La mia fantasia aveva creato certo delle aspettative esagerate rispetto allo spettacolo che effettivamente mi si presentò davanti agli occhi. La vasca dei Delfini era angosciante: l’acqua torbida, stagnante e maleodorante avrebbe condannato senza ombra di dubbio i cetacei ad una morte atroce nel giro di pochi giorni. Il bradipo andava velocissimo da un ramo all’altro, e ci fu poi detto che la povera bestiola aveva dei problemi con le anfetamine, brutto affare insomma. Arriviammo* infine allo spiazzo del mio animale preferito che avevo studiato tanto ma tanto sul “Grande libro degli animali” quando appena sapevo leggere, a 4 anni. Non si vedeva nulla, e nulla si vide per qualche minuto.
Poi all’improvviso sbucarono da dietro un cespuglio una lavatrice traballante e a stretto giro, a due metri di distanza, un lavatore (esemplare maschio della lavatrice, poco nominato perché inadatto a pulire, producendo esso troppa schiuma). Era chiaramente un inseguimento tra i due, ma condotto a velocità esasperatamente ridotta. Ci vollero 5 minuti perché il distacco tra i due marchingegni traballanti si riducesse a una manciata di centimetri. A quel punto avvenne una cosa che lì per lì non mi spiegai. Il lavatore aprì lo sportello lasciando che si diffondesse il rumore della vaschetta interna, animata da un crescente moto vorticoso. I due erano ora appiccicati, e vibravano sempre più forte. La scena andò avanti per 2 minuti almeno, concludendosi con l’entrata in funzione della centrifuga del lavatore, che con clangore finì fuori giri. Scese un po’di schiuma dallo sportello socchiuso, e finalmente la scena si concluse. Passai tutto il tempo del ritorno a casa senza proferire parola, perplesso e corrucciato stando seduto rigidamente sul sedile posteriore. Ci volle tutta la pazienza dei miei genitori per farmi capire cos’avevano combinato sotto i miei occhi quelle due selvagge macchine. Da quel momento vivo una certa repulsa per il mondo della natura.
E, sarà un caso, ma io son poi cresciuto lavando i piatti a mano.

*("arriviammo" è un hapax legomenon nella lingua italiana, creato apposta per rendere un magnifico misto di presente e passato con una tinta particolarmente coinvolgente a livello fonetico)

di Francesca Falcone

masturbazione manganelliana preliminare

di Filippo Milani

Accertarsi, innanzitutto, sul proprio stato di solitudine: è necessario essere rigorosamente soli per masturbarsi, bene. Nessuno deve poter disturbare la nostra pratica, nessuna persona, gatto, cosa o rumore devono interrompere il nostro stato di libido auto-referenziale. Silenzio totale per gesto solitario. Nelle prime fasi il movimento, per quanto meccanico, necessita di un'accurata concentrazione; tutta la nostra attenzione deve essere diretta verso un unico solo obiettivo: il piacere, il nostro, il mio. La masturbazione esige lo spazio bianco (di un bagno, della propria cameretta, etc.), la situazione bianca (una pausa nella giornata, nella mente, nelle relazioni interpersonali, etc.) e la carta bianca (soffice, ma non troppo).
Ottenuta questa condizione preliminare e indispensabile, è possibile procedere con il personale tentativo di auto-soddisfazione, ogni volta uguale, ma sempre diverso; ogni volta diverso, ma sempre uguale, regolando il ritmo della mano in base al proprio stato d'animo o alle condizioni atmosferiche, se metereopatici.

Masturbazione n. 1
Io masturbo, io mi masturbo, accordo i verbi impersonali, chiacchiero con me stesso, a vanvera, senza senso. Impugno un'estemporanea logica del cazzo, che mi rende felice e mi soddisfa, per quanto possibile. Sono nelle mie mani, è tutto nelle mie mani: la possibilità di parlare, di monologare, di interloquire. Io mi tocco la prima cosa che è alla portata della mia mano, ma che non mi appartiene, non conosco la sua volontà, ma solo la meccanica. Potrebbe dirsi uno sfogo contro me stesso, una liberazione dalle logiche della comprensione, forse. Purtroppo di me, non conosco altro che ciò che conosco di me, niente di più, nemmeno l'ontologia, l'epistemologia, né altre logie. Impugno la debole estremità del mio corpo, quella che Leonardo avrebbe posto al centro del corpo nel cerchio nel quadrato, dove tutte le linee convergerebbero, se non ci fosse la testa a confondere le proporzioni, credo. E, quindi, tutti a credere che l'ombelico sia il centro dell'uomo, dell'umanità, del mondo. Continuiamo a fingere, dimenticando che la meccanica della masturbazione concentra tutto di noi in un solo punto, nell'unico centro possibile del cerchio o del quadrato o della vita, non so.

Masturbazione n. 2
Il meccanico movimento della mano produce auto-erotismo, auto-piacere, auto-rilassamento. Godo dell'inane onanismo di un altro, che sono io, e faccio, a me, ciò che altri non sarebbero in grado di farmi. Mi auto-compiaccio di essere io stesso l'altro che mi dà piacere: non ho bisogno di nessuno, non sfrutto nessuno per il mio godimento. La pace meccanica della mia mano rassicura, con il caldo movimento auto-regolato, il mio corpo, che non sembra appartenermi, per un po'. Monodialogo con il mio cazzo che mi sorride compiaciuto; tutto è silenzio, a parte un sempre più rapido fruscio di carne su carne, esatto. Mi procuro piacere con la morte di innumerevoli possibili vite, esistenze senza futuro che esistono solo per il mio piacere istantaneo. Adesso.
Sono venuto nel palmo di me stesso, con una mano stringo me stesso, con l'altra disegno il mio volto sullo specchio, come masturbante Narciso.

Masturbazione ulteriore
io, io, io...pronome singolarmente spocchioso, che si trova sempre al centro dei miei pensieri. Odio questo protagonismo eccessivamente eclatante, tanto da sopravanzare gli altri pronomi personali soggetto, con cui vorrei poter sostituire il mio nome: tu, essi, voi, e gli altri. Odio, di un odio inutile, la sua presenza indelebile e amo, di un amore disumano, la sua assenza sottintesa. Io sono io, solamente io, che mi equivalgo nella carne e nella parola; nessun altro sono io, se non io me medesimo e solo. Nella solitudine della mia incestuosa tautologia, obbedisco al mio dio che mi comanda e che sono io, nient'altro che io. Ti ripeterò all'infinito, infinitamente odiandoti, perché non posso fare altrimenti, perché non mi è permesso distruggerti definitivamente, perché non posso e non voglio dimenticarmi, per sempre, che tu non esisti: io, io, io...

di Francesca Falcone


la vera storia dell'ultima stanza

di Roberto Bussola

Allora m’era arrivata una mail del barbolini che voleva gli mandassi qualcosa per il traghetto
mangiamerda. Sempre ammesso che io li caghi ancora quelli del traghetto mangiamerda. M’ha
detto però che c’è una scadenza perché poi si va subito in stampa. M’ha detto Manda quello che
vuoi: lungo, breve.. quello che vuoi.
Allora adesso qua sono le ventitreeventi del giorno prima della scadenza e posso decidere di
mandare quello che voglio: breve, lungo.. quello che voglio. Sempre ammesso che li caghi ancora
io quegli sfigati del traghetto mangiamerda. Allora quegli sfigati del traghetto mangiamerda che non
son altro che degli sfigati, una volta, si parla di due tre anni fa, hanno indetto una specie di concorso
letterario in cui praticamente c’era da scrivere una cosa rispettando delle regole e che contenesse
quattro particolari parole: velodromo, spremilimone, ciclocampestre e fondocranici, se non mi
ricordo male.
Allora quella volta, come ad esempio qui adesso con questa cosa da inviargli entro domani, sempre
ammesso che li caghi ancora quegli sfigati lì, quella volta mi trovavo a fare le cose di corsa e per
non sforzarmi troppo a pensare, visto che c’avevo poco tempo, avevo pensato a uno scritto che
potesse contenere quelle quattro parole da loro indicate, pur avendo come argomento la prima cosa
che mi veniva in mente.
Non avendo argomenti e avendo poco tempo avevo allora deciso di scrivere una cosa che parlasse
di quanto tempo ci mettevo a scrivere quella stessa cosa che stavo scrivendo mentre trascorreva
quel poco tempo che avevo a disposizione per scriverla. Mi sembrava l’argomento più semplice e
immediato.
Scrissi allora una cosa che all’epoca si intitolava Tentativo di poesia inutile, poi gli ho cambiato
titolo e adesso si chiama molto più semplicemente Tentativo di poesia, anche perché così suona
meglio il titolo, m’han detto e son d’accordo.
Lo scrissi, mi ricordo ancora come fosse ieri, in un sabato pomeriggio, o un venerdì pomeriggio non
mi ricordo bene, e mi ricordo come fosse successo stamattina glielo consegnai di persona, o via
mail non mi ricordo bene, a uno di quegli sfigati lì.
Allora poi, quegli sfigati lì, che non son manco capaci di rendersi conto dell’entità delle cose che
c’han per le mani, quegli sfigati lì per qualche motivo il mio tentativo di poesia è stato scartato,
adesso non mi ricordo bene per quali motivi.
Mi sembra m’han detto che avevo messo una strofa in più del numero massimo previsto dal loro
regolamento da sfigati. Una stanza in più che rendeva l’opera inaccettabile: pensa te che sfigati.
Ehh, le regole sono regole m’han detto. Sfigati.
Anche se, ammetto c’han anche le loro ragioni, quegli sfigati.
Allora fa niente, mica sono uno che se la prende per queste cose. Sfigati.
Allora fa niente tanto che dopo, dopo che era un po’ che io avevo iniziato ad avere altre
frequentazioni, dopo un po’ gli ho mandato quel testo a delle altre persone da un’altra parte e lì in
quell’altra parte, che lì non son mica degli sfigati, lì gli era piaciuto, tanto che, prima l’han messo
sul sito di una famosa casa editrice, poi l’hanno pubblicato anche in cartaceo. Son mica sfigati.
Gli era piaciuto, calma con gli era piaciuto. A dire la verità non è che gli era piaciuto proprio a tutti.
Mi ricordo che un noto critico letterario che nessuno gli aveva chiesto la sua opinione, un noto
critico letterario aveva commentato la cosa con “Che strano il tentativo di poesia di Bussola:
quando quell'ultima stanza fa pensare che sia una parodia di Carcia Lorca, diventa deludente.
Sarebbe più bella come il plagio appassionato e creativo che sembra fin lì” e poi quel noto critico
letterario se l’era presa con una certa Viola Chandra per via che Viola Chandra in un suo romanzo,
suo di Viola Chandra, all’inizio faceva dei ringraziamenti a suo avviso, suo del critico letterario, i
ringraziamenti sono un'espressione interessante della mania di grandezza e dell’ipocrisia, eccetera,
eccetera, eccetera, e tutte le altre cagate che si è messo a di dire.
Certo che “un plagio di Carcia Lorca”, ci vuole un bel coraggio. Carcia Lorca, pensa te. Se non
fossi quello che sono potrei anche offendermi. Carcia Lorca, pensa te. Io un plagio, pensa te.
Tutt’alpiù sarà stato quel tale Carcia Lorca a fare il furbo, che io mica c’ho bisogno dei plagi io.
Che poi gliel’ho chiesto lì al noto critico letterario, chi sarebbe questo Carcia Lorca? Ha pubblicato
qualcosa? Fatemi vedere questo plagio, è una cosa che si trova? Lo sa questo Carcia Lorca che io
mi han messo su un sito? Lo sa almeno? Carcia Lorca, pensa te.
Allora fa niente, mica sono uno che se la prende per queste cose.
Fatto sta, che allora dopo, anche un po’ in difesa di Viola Chandra, ho mandato a quelli lì, non agli
sfigati del traghetto mangiamerda, a quegli altri a quelli che ad alcuni gli piaceva Tentativo di
poesia, a quelli lì gli ho mandato uno scritto che partiva con tutta una serie di dediche, pensieri e
ringraziamenti e alla fine si concludeva che finiva con una breve cosa finale che si intitolava
L’ultima stanza. L’ultima stanza è strutturata come un ossimoro moltiplicato per pi-greco mezzi.
Allora adesso io glielo mando a quegli sfigati lì, ma mi chiedo Che gli vada bene a quegli sfigati
del traghetto mangiamerda un’ossimoro moltiplicato per π/2 ? O c’hanno qualche problema con i
numeri reali? O c’hanno qualche problema con gli ossimori?
Allora fa niente, mica sono uno che se la prende per queste cose.
Io, intanto gliela mando, basta non la diano in mano a qualche noto critico letterario, perché
altrimenti si rischia che poi non se ne esce più con La vera storia dell’ultima stanza.

L’ultima stanza

nell’ultima stanza, il sole ventiquattrore nel buio più totale;
solo un abbaglio di tanto in tanto.

breve romanzo autostradale

di Giovanni Previdi

Ci ha superati un tir che sul parabrezza aveva la scritti luminosa Mirko. Ci ha superati un altro tir che sul parabrezza aveva la scritta luminosa Er Gatto. Poi ci ha superati un tir che sul parabrezza aveva la scritta luminosa Elvis. Poi ci ha superati un altro tir ancora che sul parabrezza aveva la scritta luminosa I love Jesus. Brut càncar! - ha detto mio cugino Roberto - come corrono questi tir! Infine, ci ha superati, da destra, una Punto con al volante un uomo che somigliava a Bruno Vespa da giovane e anche al mio postino però. Pioveva. Arrivati al casello di Ala Avio, abbiamo pagato 1.80 € di pedaggio con 20 €. Il casellante ci ha chiesto di aspettare 5 minuti che andava a prendere il resto da un collega 3 caselli più in là. Abbiamo aspettato. Passati 5 minuti, il casellante è tornato con il resto. Scusate - ci ha detto - è un periodo questo... Poi la sbarra si è alzata e siamo ripartiti. Dietro di noi si è formata una coda di 7 auto. Brut càncar! - ha detto mio cugino Roberto - ho dimenticato il telefonino!

rosa

di Teo Lorini

Ricevo un dvx dall'amico feticista che ogni tanto mi passa qualche video. "Per ampliare i miei orizzonti" dice lui.
Fin dal titolo, Feet Action, il contenuto è chiarissimo. Nessuna trama, il solito salotto dall'arredamento chiassoso e un divano viola su cui si alternano una serie di ragazze specialiste nel masturbare i maschietti con i piedi. Non è esattamente il mio genere ma, com'era prevedibile, non so resistere alla curiosità. Così lo scansiono in avanti veloce. La qualità digitale è buona ma l'immagine si sfarina lo stesso in scie di pixel che si confondono con le striature che ciascuna secrezione lascia sulla pelle dei protagonisti. Il cursore che il mio dito manovra sul touchpad trascina sequenze sempre più rapide. Piedi, cazzi, capelli, orifizi, tagli d'occhi, capezzoli e zigomi appuntiti si confondono.
D'un tratto mi fermo. Mi è parso di vedere qualcosa, ma la freccina lampeggiante è già passata oltre e sullo schermo c'è l'ennesima moretta un pò scialba che stringe con le piante il tronchetto fallico di un altro attore senza volto.
Torno indietro lentamente e sì, non mi ero sbagliato. È tutto diverso, anche il set. Questa volta è una camera dalle pareti rosa acceso (l'arredatore sarà lo stesso del salotto): c'è un matrimonale col copriletto di seta in titna e una rastrelliera di vestiti, pure quelli rosa, ma di una sfumatura più tenue. Sul lettone è distesa una bionda con grandi occhi verdi. Però non è nuda né si vedono erezioni dalle parti dei suoi piedi. Tutto ciò che ha addosso è bianco: un completo intimo, semplice semplice, giarrettiera e calze appena velate. Accavalla e scavalla, distende e ritrae le sue gambe lunghissime, aggiusta il fermaglio sulle cosce e, per finire, agita in primissimo piano le dita dei piedi imprigionate nella ragnatela semitrasparente delle autoreggenti. Quindi rotola sul letto e sceglie un tailleur dalla rastrelliera. Abbottona, chiude le zip, poi infila delle scarpine un pò ridicole con molto tacco e una fantasia di volant rosa antico sulla punta. Infine saluta e se ne va, ticchettando sul parquet.
Dura meno di dieci minuti, ma regala alle due ore di grugniti, sudore e concitato stretching podistico la grazia, color pastello, dell'imprevisto.

MANIFESTO DELL'EPIGRAFISMO

Erano le sette e due quarti e un sole prematuro calava oltre la collina. Poi la porta bussò per anunciare che qualcuno reclamava la visita. Accolsi un Ninetto straordinariamente loquace e filiforme. Che c’è? Domandai. Un momento che mi accaldo, rispose. Si accaldò sgambettando a mo’ di gazzella nella stanza, quando fu paonazzo e concitato corse verso di me, che nell’attesa m’ero assiso a sfogliare un catalogo di portasigarette in madreperla, e mi disse: Ti rendi conto, siamo fuori dal postmoderno!

Devo dunque a Ninetto, alla conversazione che nacque quella sera e alla conseguente zuffa furibonda con gli inquilini di via dell’inferno, l’acquisizione di un salto teorico, di un florilegio concettuale in grado di gettare dal vapore modernità non solo la modernità stessa, ma finanche il vapore.

L’acquisizione è in buona parte la seguente:

si è parlato da un certo punto in poi nel Novecento della categoria quanto mai ambigua di postmoderno, la deflagrazione delle forme classiche, l’esplosione dell’opera, dell’autore, del pubblico. Le fabbriche di etichette adesive sono andate in crisi pressate da richieste in continua evoluzione. Parole come romanzo poesia racconto hanno subito un forzato prepensionamento. Si è iniziato a parlare di progetti work in progress forme ibride multimedialità opere collettive web 2.0.

In tutto questo polverone di frittate e piade rigirate restavano gli autori e i romanzi e i racconti, sotto spoglie menzognere. La necessità sembra intatta, l’opera non scalfita, gli scaffali delle librerie rimpinzati a dovere come i banchi frigo della coop.

Questo fino alle soglie del duemila e oltre.

Poi l’altra sera è arrivato Ninetto. E il salto è stato fatto.

Non ci avevamo mai pensato ma ora ne siamo certi, e dico a nome di almeno una mezza dozzina di accoliti: il postmoderno è morto, portandosi dietro opera autore e ibridamenti vari.

Buoni tutti a scrivere un romanzo o una poesia, una raccolta di liriche o di racconti, e poi reclamar fama recensioni presentazioni e premi letterari. Troppo comodo imbrattar carte.

Noi proponiamo la dittatura del paratesto, l’opera fatevela voi.

Lo scrittore che sconfina oltre il postmoderno riserva il proprio cantuccio alle note a piè di pagina (Dante Isella fu in questo campo un grande precursore), alle quarte di copertina, alle dediche e ai ringraziamenti.

Per gli scrittori puri, alfieri della rivoluzione e interpreti dei nostri tempi il passo è obbligato: siano scrittori di sole epigrafi.

Chiamiamo opera quel foglio bianco con posta in calce una sola epigrafe, di pugno dell’autore. Aggiungano altri quel che preferiscono nello spazio candido restante, non ha importanza.

L’epigrafe come un colpo di fioretto. Nulla più.




D’Art Agnan.

Gennaio 2010

di Marco Persico


il cavallo e la conchiglia

DIGRESSIONE

di Andrea Masotti

Il cavallo degli scacchi
era una capra.

G. Steiner




Ad esempio Cortazar lo intuì un mattino qualsiasi del 1967, spalmando il burro sul pane e pensando all’appuntamento con Esther alle otto e mezzo al Gaumont Rive Gauche: intuì che il movimento era quello. Un pochettino più avanti e spostatevi di lato che c’è posto, serve un dialogo tra cronopios maori per scovare l’infinita saggezza che occhieggia tra le parole di un controllore di autobus di Buenos Aires, per capire che solo attraversando gli interstizi vivi ci andremo affacciando al noumeno, diceva Calac, diceva il controllore, pensava Cortazar, finendo di spalmare la fetta di pane e con la mente già altrove.
Se l’Occidente che in noi rádica non ci concede la fuga dalla consequenzialità, dal lineare rincorrersi della causa e dell’effetto, ebbene l’imprevista L ci insegna sulla scacchiera una diversa combinazione delle cose, dà occasione a un punto di vista veramente altro, ci permette di giocarci, con questa ineludibile consequenzalità.
Eravamo su un sentiero di montagna, in quella brulla prealpinità dove gli alberi si diradano e cominciano a far capolino le marmotte. La nobiltà del corpo che con fatica si eleva concedeva il naiveggiare della nostra chiacchiera, e di questo si parlava, di Oriente e Occidente, di orizzontalità e verticalità, della parabola del detrito portato dall’onda sulla spiaggia, che ben al di là degli Urali trova il suo perchè nel simultaneo essere -che non ci appartiene- e che da noi, sulle dita del Mediterraneo e dei figli dei suoi figli, si spiega -non può che spiegarsi- risalendo il filo della causalità, filosofia come noccioline, senza cura, in salita.
Questo filo, per l’Occidente che ragiona e produce, è catena che strozza. E il pensiero è cianotico, e solo questo oramai gli permette imbarazzanti timide insoddisfacenti erezioni. Ma andiamo con ordine.
Il parlare come si mangia ha sempre avuto per me un significato affatto particolare: mi piace sbriciolare i crackers sul tonno, non disdegno la pizza coi fichi, marmellata sulla mozzarella e miele sui pop-corn mi dicono gran bene.
Ma qua non si gioca con le parole, non ci interessano accondiscendenti necrobazie: qua, ancora una volta, con sempre maggior arroganza, si lavora di scalpello sul modus-cogitandi, si propugna un diverso modo di prendere le cose, quello che si propugna -è una nuova realtà. Seguiamo il cavallo. Dove ci porterà -e soprattutto per quali strade- non ci è dato di sapere.
Una volta ho cominciato una partita a scacchi con il nonno del nonno di mio nonno, che ha avuto termine solo settimane dopo. Era un gran giocatore, il mio trisavolo, ed io ero per così dire una schiappa. E si divertiva a prendermi in giro, a tenermi impegnato in larghe digressioni senza strategia apparente, e passavano le ore, la luce scoloriva la sera e l’alba la riaccendeva, e passavano i giorni, le settimane. Poi il mio antenato vinceva, ma non è questo che conta.
Non stiamo certo parlando dei miei avi, e nemmeno del tempo che scorre, neanche -per quanto ai più possa sembrare- di scacchi. E neppure di filosofia orientale, di modus-cogitandi o di cibo, che sia ben chiaro: qua, si parla di conchiglie.
La conchiglia è una costruzione in carbonato di calcio posta a protezione o a sostegno di alcune famiglie di invertebrati. Il termine conchiglia in senso zoologico è riferito ai gusci calcarei di svariati animali spesso ben differenti fra loro non solo come forma superficiale, ma anche come organizzazione morfologica e di conseguenza funzionale.
In una delle sue più ispirate Cosmicomiche -con una potente intuizione- Calvino si spinge lungo il calcareo spiralizzarsi della conchiglia, ci spinge a conoscere il reale. E lo possiamo vedere tutti che la scacchiera non è mai solo a due dimensioni, contiene ciò che dura, e i pezzi del gioco sanno gettare lunghe ombre sui suoi distici quadrati: e l’andare del cavallo è l’accenno di una spirale mai compiuta, spiraliforme in nuce, l’unico teso alla dimensione inconcessa, scavalca nitrisce e va.
E il tocco di questa conoscenza è obliquo, di una logica senza catene, dall’epidermide del carapace scivola sullo scoglio, dallo scoglio al treno che passa, dal treno al viaggiatore che legge Erodoto, alle piramidi, allo sciame di api, al contadino, alla figlia del custode seduta sulla soglia, e tutto è carapace.
Il salto dal palo alla frasca è sempre rischioso, occorre dosare potenza equilibrio e precisione, a farlo a casaccio -a freddo- si rischia di slogare congiunzioni, tumefare sineddochi, strapparsi tendini e metafore. Ma tentare è pur tuttavia necessario.
Al giorno d’oggi -senza nulla togliere alla notte- una fitta combinazione di tetragrammi sociali assuefa al culto della retta via, della nitida chiarezza, del dire brevilineo. Questo è male. Ovvero, fermo restando la buona fede e l’elementare utilitarismo, è un esercizio che ha conseguenze nefaste, nel vaso e fuori dal vaso.
La lenza ha tiro corto, il risalire è precipitoso e disteso: si parte da quello che è più vicino alla penna, un’autoreferenziale professione di stile, e poi ancora, una retriva e reazionaria deplorazione per l’impoverimento della lingua -nel vaso. E si arriva a ciò cui solo un tónico simbolismo parrebbe poter ricondurre, fuori dal vaso: la costituzione di una diversa scala di valori, il ripensamento dell’immaginario, una più agile e florida maniera di abitare il discorso di sè e del mondo.
Per dirla in un paragrafo, che sia finita una volta per tutte, d’un fiato: l’abominio dell’espressione che affligge il nostro quotidiano andare, del culto della sintesi è figlio. Culto della sintesi: tendenza all’affannoso limare, semplificare, ridurre all’osso. Fin dall’età senza peli e poi ancora, per tutte le stagioni della vita, che non si cada nel fuori tema, giammai, che non si perda tempo, dritti filati al bersaglio: va bene, impariamo a riconoscere l’essenziale, raffiniamo l’udito intellettuale verso “ciò che più conta”, arriviamo al cuore delle cose per saperle restituire con più efficacia. Va bene, e sia.
Ma noi non siamo cani, ci piace vágolar per l’aia -cavalli, capre, di stazza fiera e piede di mácina- e l’osso non ci può bastare.
Ossicini, coralli, cocci di vaso, pezzi di conchiglia. Il mercante veneziano disponeva i suoi reperti davanti al Gran Kahn, sulla muta scacchiera -muta per un attimo- su cui si incontravano ogni giorno. Nel testimoniare le sue geografie Marco compiva un atto di creazione, il racconto faceva esistere le città, i fiumi, il regno: aprire parentesi, cedere alle scansíe del discorso come il piede ai vicoli illuminati dal diagonale sole del crepuscolo, cominciare digressioni, accennare a sogni e a ricordi, divagare verso l’orizzonte inconcluso, nell’Oriente.
Oltre le parole, oltre le mercanzie, il viaggiare dei pezzi sulla scacchiera parla del mondo, oltre le geografie, il loro combinarsi lo crea. Ma tu sei nel tempo, fuori dalla scacchiera.
Avverti con lucido fastidio la nebulosità che ottunde il tuo concetto, il denso magma che rallenta il movimento del tuo squisitamente fisico cerebrare. Ti è dato di allenare in senso retrospettivo, o quantomeno orizzontale, il muscolo del pensiero, nell’attesa che la parte impersonale e biologica del tempo -un tempo altrimenti assolutamente tuo- operi su di te lo spostamento verticale -oltre le colonne d’Ercole dell’insospettato, insospettate esse stesse, verso un più ampio respiro mentale, che ad ultimo si traduce in una più consistente presenza intellettuale davanti a sè stessi.
Qua, qua dietro, ci attende l’inatteso: ci spostiamo senza troppa cura in un territorio che scopriamo di conoscere, ma senza svettare, senza mai goderne a piena coscienza, rischiando in ogni momento di incorrere nella fine della scacchiera. Il passo, è quello del cavallo. Non lineare, imprevedibile, elusivo, decisamente bizzarro -e il suo nome è digressione.
Digredior: allontanarsi, scostarsi. Allontanarsi da cosa?
Quando questa domanda comincerà a suonare senza significato, quando almeno un pò di volte al giorno -umilmente, propongo i dintorni dei canonici pasti- potremo permetterci di dimenticarla, ebbene allora, allora sì.
Ulisse, sovrano della poikilía -della variazione e dell’intreccio, doni di ermetico Ermes- nel nono libro, davanti ai Feaci, ricomincia la sua odissea, rimodella i suoi viaggi nel racconto, nella notte incommensurabile. E nel racconto, la voce di Proteo si nasconde dentro quella di Menelao, la voce di Circe si cela dentro quella di Ulisse, scatole cinesi, matrioške -nella notte che tutto nasconde il polýtropos assume i connotati di Sharazad d’oriente: Ulisse è colui che andò oltre. Oltre le colonne d’Ercole, nel regno fantastico e magico che si apre dopo capo Malea, oltre i confini del nostro mondo soggetto allo spazio e al tempo, alle nostre radici -cave come bambole di legno- Odisseo, colui che costruì il cavallo.
A posto quelle luminarie? Signore e signori, possiamo cominciare.

di Marco Persico


viaggi

di Ivan Borsi

Mi ritrovai a vivere in una caldaia di singapore. Vissi novantanove giorni procacciandomi del cibo nella spazzatura e brucando erba nelle aiuole dei giardini pubblici. Nella caldaia viveva una cinese matta, senza un braccio, nata da un incesto e abbandonata a se stessa sin dall'età di sette anni. Le notti in caldaia erano terribili. Topi grossi come rinoceronti danzavano sui tubi. La caldaia quando s'accendeva faceva tremare le fondamenta di quel grattacielo. Manometri vibravano impazziti.
Tutto lasciava presagire un'esplosione di lì a poco. E fu in quelle circostanze che l'istinto di sopravvivenza uscì prepotente trasformando quella difficile permanenza in una vacanza in un villaggio turistico. C'è da dire che nelle notti infinite di singapore io e la cinese ci trovammo spesso con i nostri organi sessuali confusi in un'unità. Senza dire mai una parola. Anche perchè non avremmo avuto alcun modo di comunicare. Io avrei voluto avere con me solo il mio Bianciardi perso sulla pista di Gatwick. Le guzzate con la cinese erano la cosa migliore mi fosse mai capitata. E il braccio sinistro le funzionava a meraviglia. Io una notte persi due denti e per il male che mi procurò un'infezione presi a testate la ghisa. Avevo capito che la mia permanenza a Singapore non avrebbe potuto protrarsi oltre. Fu così che dal giorno alla notte mi ritrovai a Dakar.

di Marco Persico

Il giovane hertz

di Antonio Selavi

Voglio parlarvi di un tale di nome Dario Riboldi che a scopo puramente narrativo farò finta essere mio padre. Dario Riboldi un giorno d'aprile in cui il sole splendeva forte che le nuvole si stendevano a prendere la prima tintarella, Dario Riboldi quel giorno prese un sentiero che lo avrebbe portato verso le montagne, dalle vette d'un avorio limpido che gli si conficcava nello stomaco. Dario Riboldi per scacciare le ansie e le paure che quel giorno lo assalivano come formiche carnivore prese a camminare, su quel sentiero che lo avrebbe portato verso le montagne, scalciando con forza un piede avanti quell'altro come un mulo con nervi di canguro. Dario Riboldi a ogni manciata di passi si tergeva il sudore dalla fronte, poi guardava il sole e quando dopo averlo guardato, posava lo sguardo sui declivi, era divenuto cieco, e restava cieco per vari minuti nei quali camminava sbattendo contro i rovi e i rami degli alberi. Teneva tra le mani un piccolo oggetto Dario Riboldi. Questo piccolo oggetto era una noce e questa noce ogni tanto emetteva un un ronzio che faceva bzzzzsz bzzzzsz. Questo ronzio, bzzzzsz bzzzzsz, faceva eco al suo respiro che s'andava strozzando con la fatica. L'erba era viola scuro mentre l'aria, più Dario Riboldi saliva, più si faceva nitida. Ora, facciamo un salto indietro, molto prima di quella giornata d'aprile. Prima che Dario Riboldi potesse mai neanche immaginare di cacciarsi per un sentiero verso le montagne con biglietto di sola andata. Allora Dario Riboldi studiava da perito elettrotecnico. A casa, Dario Riboldi e Luciano Riboldi, che alla fine era suo fratello, avevano inventato il gioco di sbucciare le mele facendo un unico pezzo della buccia, e quello di rompere le noci in due metà perfette. Per via di quest'ultimo gioco, sulla mensola della camera di Dario Riboldi e Luciano Riboldi (sul lettone a castello Luciano Riboldi, il fratello più vecchio, era alloggiato al primo piano ma questo al fine della storia c'entra poco), si andavano accumulando varie noci, cioè solo i gusci dato che il contenuto era già finito nelle loro pance. Fu un giorno dopo una lezione sul rotore di dinamo, che a Dario Riboldi saltò in mente di costruire all'interno di una noce un minuscolo motore elettrico. Dario Riboldi scelse dalla mensola di camera la noce più piccola di tutte. Dario Riboldi di lì in poi dedicò vari giorni alla riuscita della sua impresa, fin tanto che un pomeriggio di febbraio più buio di un inverno in Lapponia, la noce elettrica vide la luce e lanciò il suo primo vagito, bzzzzsz bzzzzsz. Dario Riboldi quel pomeriggio scattò una foto della noce elettrica vicino a un righello decimale che testimoniasse la grandezza della sua impresa. Quella foto forse pensò Dario Riboldi, un giorno sarebbe capitata nelle mani dei suoi figli o forse anche dei figli dei suoi figli. Quando si è giovani si pensa sovente alla sopravvivenza della specie forse perché si ha più cognizione della morte. Non si può dire che a tale pensiero Dario Riboldi versò delle lacrime in ipoteca, ma provò un sentimento, che visto al microscopio temporale, si sarebbe potuto avvicinare alla commozione eterna. La noce era anche dotata di un piccolissimo pulsante che la faceva aprire, mentre chiusa sembrava una delle tante dello scaffale della camera. Tutti alla scuola per perito elettrotecnico vennero a conoscenza della noce elettrica, opera grandissima di Dario Riboldi, e tutti presero a tenere in considerazione Dario Riboldi come un giovane Hertz. Seguirono giorni in cui la scuola venne chiusa, tutti nascosti come topi in una gattaia e presi a calci da eventi schifosi. Ora torniamo a quel giorno d'aprile in cui il sole alimentato da dinamo universale lanciava stilettate ultraviolette e radiazioni oblique. Quel giorno Dario Riboldi teneva in pugno la noce e ogni tanto azionava la sala macchine che strepitava bzzzzsz bzzzzsz. Anche il cuore vibrava forte e la testa era divenuta un gomitolo di pensieri. Dario Riboldi guardò verso valle la vita che stava lasciando e sorrise col labbro che tremava. Da dietro un rifugio diroccato spuntò uno smilzo con un mitragliatore sproporzionato a tracolla, un cappello bordò cacciato di traverso e una pipa all'angolo della bocca. Sorrise a Dario Riboldi, sussurrando qualcosa con accento inglese. Quando poi gli chiese quale sarebbe stato il suo nome di battag-lia, Dario Riboldi rispose con voce sottile ma ferma: Nosetta! What? Strizzava gli occhi lo smilzo. Dario Riboldi estrasse dalla tasca la noce e la fece vibrare, bzzzzsz bzzzzsz. Lo smilzo rise così forte che il cappello bordò finì per coprire l'azzurro intenso dei suoi occhi. S'incamminarono in fila sul sentiero e le loro ombre allungandosi si confusero con la notte. A Dario Riboldi, il nostro eroe, il giovane Hertz, quella parola ascoltata a lezione, era continuata a ronzare in testa per mesi. Tra la linea di entrata bifase e l'induttanza, Brunello Eruli, emerito professore di elettronica, aveva parlato per la prima volta della resistenza. Dario Riboldi aveva diciassette anni. Il giovane Hertz non passò alla storia delle scienze benché la noce elettrica abbia un posto d'onore nel mio museo personale e ogni volta che vado a visitare quel museo, sento che siamo in due a piangere.

giovedì 6 marzo 2008

un'altra anticipazione

Come trovare il motore primo in un motore di ricerca

- Ho sempre cercato la domanda.
Una volta trovata mi sono accorto
che non c'era la risposta allegata.
Allora ho preso a cercare la risposta.
Ho provato con religioni, filosofie ma no, no, no.
Un giorno mi sono imbattuto in un uomo
il cui volto mi ha illuminato.
E la risposta è stata subito chiara, evidente.
Purtroppo mi sono dimenticato la domanda. -

Ecce homo
(l'illuminato illuminatore)

Tratto dalla sesta di copertina del libro
"Come trovare il motore primo in un motore di ricerca"
J.J. Ileo

martedì 4 marzo 2008

La Bestemmia Binaria

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