Erano le sette e due quarti e un sole prematuro calava oltre la collina. Poi la porta bussò per anunciare che qualcuno reclamava la visita. Accolsi un Ninetto straordinariamente loquace e filiforme. Che c’è? Domandai. Un momento che mi accaldo, rispose. Si accaldò sgambettando a mo’ di gazzella nella stanza, quando fu paonazzo e concitato corse verso di me, che nell’attesa m’ero assiso a sfogliare un catalogo di portasigarette in madreperla, e mi disse: Ti rendi conto, siamo fuori dal postmoderno!
Devo dunque a Ninetto, alla conversazione che nacque quella sera e alla conseguente zuffa furibonda con gli inquilini di via dell’inferno, l’acquisizione di un salto teorico, di un florilegio concettuale in grado di gettare dal vapore modernità non solo la modernità stessa, ma finanche il vapore.
L’acquisizione è in buona parte la seguente:
si è parlato da un certo punto in poi nel Novecento della categoria quanto mai ambigua di postmoderno, la deflagrazione delle forme classiche, l’esplosione dell’opera, dell’autore, del pubblico. Le fabbriche di etichette adesive sono andate in crisi pressate da richieste in continua evoluzione. Parole come romanzo poesia racconto hanno subito un forzato prepensionamento. Si è iniziato a parlare di progetti work in progress forme ibride multimedialità opere collettive web 2.0.
In tutto questo polverone di frittate e piade rigirate restavano gli autori e i romanzi e i racconti, sotto spoglie menzognere. La necessità sembra intatta, l’opera non scalfita, gli scaffali delle librerie rimpinzati a dovere come i banchi frigo della coop.
Questo fino alle soglie del duemila e oltre.
Poi l’altra sera è arrivato Ninetto. E il salto è stato fatto.
Non ci avevamo mai pensato ma ora ne siamo certi, e dico a nome di almeno una mezza dozzina di accoliti: il postmoderno è morto, portandosi dietro opera autore e ibridamenti vari.
Buoni tutti a scrivere un romanzo o una poesia, una raccolta di liriche o di racconti, e poi reclamar fama recensioni presentazioni e premi letterari. Troppo comodo imbrattar carte.
Noi proponiamo la dittatura del paratesto, l’opera fatevela voi.
Lo scrittore che sconfina oltre il postmoderno riserva il proprio cantuccio alle note a piè di pagina (Dante Isella fu in questo campo un grande precursore), alle quarte di copertina, alle dediche e ai ringraziamenti.
Per gli scrittori puri, alfieri della rivoluzione e interpreti dei nostri tempi il passo è obbligato: siano scrittori di sole epigrafi.
Chiamiamo opera quel foglio bianco con posta in calce una sola epigrafe, di pugno dell’autore. Aggiungano altri quel che preferiscono nello spazio candido restante, non ha importanza.
L’epigrafe come un colpo di fioretto. Nulla più.
D’Art Agnan.
lunedì 10 marzo 2008
MANIFESTO DELL'EPIGRAFISMO
Gennaio 2010
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