pudenda

lunedì 10 marzo 2008

Il giovane hertz

di Antonio Selavi

Voglio parlarvi di un tale di nome Dario Riboldi che a scopo puramente narrativo farò finta essere mio padre. Dario Riboldi un giorno d'aprile in cui il sole splendeva forte che le nuvole si stendevano a prendere la prima tintarella, Dario Riboldi quel giorno prese un sentiero che lo avrebbe portato verso le montagne, dalle vette d'un avorio limpido che gli si conficcava nello stomaco. Dario Riboldi per scacciare le ansie e le paure che quel giorno lo assalivano come formiche carnivore prese a camminare, su quel sentiero che lo avrebbe portato verso le montagne, scalciando con forza un piede avanti quell'altro come un mulo con nervi di canguro. Dario Riboldi a ogni manciata di passi si tergeva il sudore dalla fronte, poi guardava il sole e quando dopo averlo guardato, posava lo sguardo sui declivi, era divenuto cieco, e restava cieco per vari minuti nei quali camminava sbattendo contro i rovi e i rami degli alberi. Teneva tra le mani un piccolo oggetto Dario Riboldi. Questo piccolo oggetto era una noce e questa noce ogni tanto emetteva un un ronzio che faceva bzzzzsz bzzzzsz. Questo ronzio, bzzzzsz bzzzzsz, faceva eco al suo respiro che s'andava strozzando con la fatica. L'erba era viola scuro mentre l'aria, più Dario Riboldi saliva, più si faceva nitida. Ora, facciamo un salto indietro, molto prima di quella giornata d'aprile. Prima che Dario Riboldi potesse mai neanche immaginare di cacciarsi per un sentiero verso le montagne con biglietto di sola andata. Allora Dario Riboldi studiava da perito elettrotecnico. A casa, Dario Riboldi e Luciano Riboldi, che alla fine era suo fratello, avevano inventato il gioco di sbucciare le mele facendo un unico pezzo della buccia, e quello di rompere le noci in due metà perfette. Per via di quest'ultimo gioco, sulla mensola della camera di Dario Riboldi e Luciano Riboldi (sul lettone a castello Luciano Riboldi, il fratello più vecchio, era alloggiato al primo piano ma questo al fine della storia c'entra poco), si andavano accumulando varie noci, cioè solo i gusci dato che il contenuto era già finito nelle loro pance. Fu un giorno dopo una lezione sul rotore di dinamo, che a Dario Riboldi saltò in mente di costruire all'interno di una noce un minuscolo motore elettrico. Dario Riboldi scelse dalla mensola di camera la noce più piccola di tutte. Dario Riboldi di lì in poi dedicò vari giorni alla riuscita della sua impresa, fin tanto che un pomeriggio di febbraio più buio di un inverno in Lapponia, la noce elettrica vide la luce e lanciò il suo primo vagito, bzzzzsz bzzzzsz. Dario Riboldi quel pomeriggio scattò una foto della noce elettrica vicino a un righello decimale che testimoniasse la grandezza della sua impresa. Quella foto forse pensò Dario Riboldi, un giorno sarebbe capitata nelle mani dei suoi figli o forse anche dei figli dei suoi figli. Quando si è giovani si pensa sovente alla sopravvivenza della specie forse perché si ha più cognizione della morte. Non si può dire che a tale pensiero Dario Riboldi versò delle lacrime in ipoteca, ma provò un sentimento, che visto al microscopio temporale, si sarebbe potuto avvicinare alla commozione eterna. La noce era anche dotata di un piccolissimo pulsante che la faceva aprire, mentre chiusa sembrava una delle tante dello scaffale della camera. Tutti alla scuola per perito elettrotecnico vennero a conoscenza della noce elettrica, opera grandissima di Dario Riboldi, e tutti presero a tenere in considerazione Dario Riboldi come un giovane Hertz. Seguirono giorni in cui la scuola venne chiusa, tutti nascosti come topi in una gattaia e presi a calci da eventi schifosi. Ora torniamo a quel giorno d'aprile in cui il sole alimentato da dinamo universale lanciava stilettate ultraviolette e radiazioni oblique. Quel giorno Dario Riboldi teneva in pugno la noce e ogni tanto azionava la sala macchine che strepitava bzzzzsz bzzzzsz. Anche il cuore vibrava forte e la testa era divenuta un gomitolo di pensieri. Dario Riboldi guardò verso valle la vita che stava lasciando e sorrise col labbro che tremava. Da dietro un rifugio diroccato spuntò uno smilzo con un mitragliatore sproporzionato a tracolla, un cappello bordò cacciato di traverso e una pipa all'angolo della bocca. Sorrise a Dario Riboldi, sussurrando qualcosa con accento inglese. Quando poi gli chiese quale sarebbe stato il suo nome di battag-lia, Dario Riboldi rispose con voce sottile ma ferma: Nosetta! What? Strizzava gli occhi lo smilzo. Dario Riboldi estrasse dalla tasca la noce e la fece vibrare, bzzzzsz bzzzzsz. Lo smilzo rise così forte che il cappello bordò finì per coprire l'azzurro intenso dei suoi occhi. S'incamminarono in fila sul sentiero e le loro ombre allungandosi si confusero con la notte. A Dario Riboldi, il nostro eroe, il giovane Hertz, quella parola ascoltata a lezione, era continuata a ronzare in testa per mesi. Tra la linea di entrata bifase e l'induttanza, Brunello Eruli, emerito professore di elettronica, aveva parlato per la prima volta della resistenza. Dario Riboldi aveva diciassette anni. Il giovane Hertz non passò alla storia delle scienze benché la noce elettrica abbia un posto d'onore nel mio museo personale e ogni volta che vado a visitare quel museo, sento che siamo in due a piangere.

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