pudenda

sabato 15 ottobre 2011

ADDIO AL CELIBATO

Un indignitoso omaggetto dal Kolkhoz Mangiamerda al nostro Felicio Milza, che si è sposato. Accogli o Riccardone a guisa di goliardica scudisciata e come segno del nostro amore questo vergognoso e inconcludente raccontino a più mani, e quel che segue.
Noi ti si aspetta al varco.
Vivài sposi.



ADDIO AL CELIBATO

Aveva degli amici amanti del paradosso, e lo sapeva. E in fondo era lui stesso un fervido praticante dell'obliquità, dell'esagerazione sibillina, dell'insensatezza portata alle estreme conseguenze.
Ma quello che accadde quella sera non poteva in alcun modo prevederlo. Non poteva lui e forse non potevano nemmeno loro.

Quando la puttana cominciò ad agitargli le tette davanti al naso, grandi tette negre e odorose, gli venne in mente la risposta sferzante che avrebbe voluto dare ad un suo alunno, quel pomeriggio. La risposta, per come poteva formularla una mente già confusa dalla tequila e a pochi centimetri da un paio di vastissimi capezzoli, suonava circa così: "forse non ti rendi conto che Gutenberg è morto di crepacuore per molto peggio, piccolo stronzetto."

Lo riportò al presente un violento dolore all'anca sinistra. Carlo gli aveva conficcato una grossa siringa nel braccio, bucando i vestiti e spingendola dentro la carne di diverse dita.

"Cosa stai facendo, si può sapere?"
Carlo non diceva niente, rideva e basta con la sua faccia larga da prendere a sberle. Aveva gli occhi schiacciati e stretti per colpa del riso idiota, con l'altra mano gli toccò con presa decisa il braccio come a voler facilitare il gesto di estrazione della siringa.
Quando smise di ridere, il volto di Carlo si fece serio e quasi timoroso, lo guardò fisso negli occhi e con quel terrore discreto nell'esitazione delle parole, gli chiese quale fosse la differenza tra estetica e logos.


Nel frattempo la puttana continuava a dimenare le sua mammelle rigonfie e allungate come due sacche piene d'acqua.

Lui le fissava l'attacco del seno, appiattito e svuotato rispetto al resto, contava le pieghe, le piccole grinze di quel petto condannato al passare del tempo. Ci vedeva i vicoletti e le strade trafficate di Padova il mercoledì sera. Si immaginava lì, in una di quelle lunghe insenature poppute, seduto e dignitoso, ad accarezzare gattini, quegli stessi gattini che non tanto tempo prima Maria gli aveva cucinato, debitamente spellati e privati delle loro fastidiose unghiette. Un gran zuppone di gattini spappolati, che scivolava giù per il suo gargarozzo come un bambino dal costume pieno di merda sullo scivolo d’un acquapark.

Attaccò quindi con una citazione casuale a braccio di Galimberti, il suo nume tutelare, tanto per dar da mangiare alla stolida facciona di Carlo: “Una virtù (areté) che è cammino verso il centro invisibile e indicibile (árretos) da cui solamente è possibile il dispiegarsi di quelle armoniche circonferenze che sono il diritto, il rotondo, il bello e il giusto. Ma per questo ci vuole altissima conoscenza (méghiston mathémata), quella conoscenza matematica per cui Platone fa scrivere sulla porta della sua scuola Non si entra qui se non si è geometri.”


E fu sulla parola méghiston che, emettendo come un fischio dalle labbra negroidi, un fremito crescente scosse le mammelle e l’intero ventre della scura puttana, tanto forte da farla cascare a pancia all’aria, come una tartaruga dal guscio mollo e flaccido.


Si risvegliò in un cesso che non era il suo al suono ruvido di una verde milonga dei caraibi occidentali. Era probabile che lo sperma tra le sue mani fosse il suo, ma non ci poteva scommettere, perché in questi casi non si ha mai la certezza dell'appartenenza. Dov'era andato Carlo? Forse si era offeso per Galimberti? Lo sapeva bene che Galimberti a Carlo stava sui coglioni, ma se lo meritava: in fin dei conti lo aveva svegliato con una siringa vuota, fosse stata piena almeno. Voleva ritrovare la negra? Dov'era la negra? Per lo sconforto si mise a tamburellare sulle pistrelle bianche del cesso con le dita ancora sporche di sperma, che poteva essere il suo, ma a dire il vero non era tanto sicuro di riuscire a distinguerlo dagli altri con precisione.


In quel preciso momento, da qualche parte oltre l'oceano e la barbarie, ninetto accarezzava le zampine della sua oca da passeggio.



più l'accarezzava più la tensione saliva.

più l'accarezzava e più si sentiva solo.

più l'accarezzava e più dormiva come un ghiro.

gli amanti del paradosso non avevano idea di chi fosse.

all'improvviso fu terribile quello che non gli successe: non gli successe nulla di terribile.

aprì la bocca, ne uscì un pesce. aprì la bocca ne uscì un pesce.

aprì la bocca ne uscì un pesce. aprì la bocca ne uscì un pesce.

aprì la bocca ne uscì un giaguaro. aprì la bocca ne uscì uno stornello:

walter sei il nostro kennedy. oh kennedy. oh kennedy.

boia dio, pensò l'oca, questa è una hit!


Prendo una zattera che ritorna alle barbarie, lo vedo mentre prova ad assaggiare il gusto delle sue dita per capire se la sostanza (denominata: sperma) è un prodotto del suo corpo o altro; la sensazione al palato è simile alla patina che si forma sui gamberetti fritti ed è impossibile stabilirne la provenienza.
La verde milonga prosegue il suo cammino sonoro incurante dello stato d’animo che impegna la cognizione del Nostro che, risvegliatosi in un cesso ancora differente dal suo, arranca tra le sporgenze dei rubinetti e gli asciugatori color panna. L’immagine degli specchi non regala una vista dignitosa e raggiunto qual’era il pomolo della porta s’affaccia sul cortile adiacente la toilette: un piede dopo l’altro, un passo, due passi, le zampine dell’oca da passeggio nel frattempo vengono tranciate, ma questa è un’altra storia, tre passi, una negra popputa, Sciao Ammore! Chi sei?
Ignorando le avance prosegue nel suo cammino eroico verso la meta, un cancelletto lo libera dallo steccato in bianco legno macchiato di bassa qualità, dieci passi, undici, dodici, il sentiero di ciotoli lo guida fino ad una panchina di sassolini assemblati dal cemento; esausto, si siede, respira a bocca aperta, ciondola il cranio appoggiando i gomiti sulle rotule.
Riapre gli occhi, un divano variopinto accudisce le sue natiche, la milonga ha lasciato il posto al rituale di benventuo della casa: Sciao Ammore! Realizza d’avere le dita ancora imbrattate, non ne assaggia la provenienza essendo certo della natura di quella pastella biancastra ma si ripulisce le mani strofinandole sui morbidi cuscini.


Poi la porta si apre e finalmente entra.
Una figura ossuta, erosa dagli anni, che si trascina a stento su delle gambe ormai molli e stanche. Gli occhi, grigi e spent,i sono coperti da grumi di capelli unti e mal curati. Indossa abiti appartenenti ad epoche ormai dimenticate il cui odore fa lacrimare gli occhi.
Riccardo inzia a tremare desidernado di sprofondare nel divano per mai più risalire.
La figura emette un lungo lamento simile ad un clarinetto boemo del sedicesimo secolo ( non al suono del clarinetto per essere chiari, ma al calrinetto stesso) per tredici minuti e trentasette secondi.

- Sei la morte? - Chiede Riccardo al tredicesimo minuto e trentottesimo secondo.
- No, sono il Celibato, Dio can. -
- Ah.... Allora addio Celibato. -
- Addio Riccardo. -




mercoledì 21 settembre 2011

Cigno

Mentre Calpurnio cercava di raccogliere da terra il coraggio e i pantaloni calati con fare goffo e imbarazzato, il Dott. Lambretta si stava già togliendo i guanti di lattice.

- Cos'ho, Dottore?
- Signor Calpurnio, lei ha un cigno nel culo.

giovedì 25 agosto 2011

ASS WHITE SHOT

martedì 7 giugno 2011

Camminarti

Un vecchio ubriaco mi barcolla davanti, cammina a fatica sulle sponde dei piedi, vedo le sue mani sbucare fuori dalla giacca, troppo grande. Un cieco sbatte il suo bastone bianco contro una panchina, due gambe lunghissime lo dribblano, sorreggendo una minigonna rossa. Una coppia urla in mezzo alla strada, una bici sfrecciando li taglia in due. Lei raccoglie la borsa, lui non insegue la bici. Una pioggia fine cade e non bagna. C'è un uomo sdraiato su un materasso per strada, abita l'angolo morto tra due palazzi. Sento lo scricchiolio che fanno le scarpe di quelli che giocano a basket nel campetto sotto casa. Qualcuno urla, la donna col passeggino non si spaventa, il bambino ride. Le strade si fanno passeggiare al ritmo che preferisci: ora lente e distratte, ora frenetiche e scontrose, come se stessi inseguendo qualcosa tra la folla. La pioggia continua a cadere e non bagna. Seguo le traiettorie di persone che mi portano fuori rotta, e immagino le loro vite al riparo dalla strada. Seguo una ragazza nera che cammina rapida e silenziosa, un uomo con un cappello strano, una signora con un tatuaggio sul collo, forse una chicciola, un bambino con la giacca verde che tiene per mano la nonna, alcune magliette a righe orizzontali che attraversano la piazza. Qualcuno cerca di rubare il telefono ad una ragazza che lo tiene in mano. Nessuno si accorge della pioggia, nemmeno le finestre sembrano bagnarsi. Allora fermo la clessidra e immagino il mare, la neve, le foglie gialle fuori stagione.

domenica 29 maggio 2011

DOPO LA BIRRA, PRIMA DELLA SPUMA

Ciao a tutti, sono il Traghetto Mangiamerda.
Oggi, facendomi largo tra i merli, mi sono fatto la doccia, 
ed è stato controllando nel filtro dello scarico che me ne sono accorto: 
una settimana fa ho partecipato al BIRRA.

Il Birra, come suggerisce lo sguardo, è la  
Bagarre Internazionale Relle Riviste Alternative.
Ciao a tutti, eccomi qua, ne dico qualcosa anch'io.
Innanzitutto sgombriamo il campo dagli equivoci:
era una Bagarre, perciò 
il Traghetto Mangiamerda ha vinto.

Non c'é molto altro da dire. 
Giusto alcuni residui di peli pubici, sapone, e merli:
  1. C'erano parecchie altre riviste, tutte molto felici perché potevano vedere l'Umilissimo Mangiamerda. Ne cito alcune: costolame, pazzelfo, ignubile, malma, tegliera, aleppo, generAzziode, taccuino all'idrovora. Altre le trovate elencate qua: qua.
  2. Noi riviste abbiamo parlato tra di noi, alcune provocando un certo imbarazzo per delle cose rimaste tra i denti, visibilissime. Si è parlato di cose belle, primaverili e turgide, come dell'opportunità di costruire una rete per supportarci a vicenda e arrivare meglio al lettore (il primo passo è questo blog: questo blog); della voglia di rendere il BIRRA un evento fisso, a ricorrenza annuale, e importante a livello nazionale; dell'idea di creare un'EMEROTECA DELLE RIVISTE INDIPENDENTI, dislocata potenzialmente in tutta la nazione, con relativo motore opac di ricerca online.
  3. Birra. Non l'acrostico, l'altra. E molta g.r.a.p.p.a..
  4. Il Traghetto Mangiamerda si è prodotto in una squisita performance di action compositing, ignorando Gutemberg con sprezzo, risultato della quale è
    IL NUOVO NUMERO
    DEL TRAGHETTO MANGIAMERDA.
    Un parto invero ancora in corso, per ora sono uscite la testa e una gamba, e che terminerà -tornati a Gutemberg con la coda tra le gambe- in un lampo o poco più. Attendete tutti con gli occhi spalancati e senza respirare, per ora accontentatevi di questa anteprima:














Ciao a tutti,
sono Azelhof,
toccatemi pure.

martedì 17 maggio 2011

MANGIArMERDA e BIRRA!


Raffaele Bendandi pare l'avesse previsto da tempo,
ma come spesso accade non gli avevano dato retta.

SABATO 21 MAGGIO et
DOMENICA 22 MAGGIO
la boria dei ragazzi del TRAGHETTO MANGIAMERDA
sbarcherà al BIRRA, il festival delle riviste alternative italiane

Una foto: 


Per l'occasione, pulviscolari Atteoni,
potrete ammirare le nostre sciocche membra
E
-godere dell'ultimo numero!
-godere del numero dopo!
-godere delle nuovissime spillette!


E non è tutto.

martedì 3 maggio 2011

Im-paris

L'odore di piscio sbuca dietro l'angolo, nella metropolitana, colpendoti in faccia con tutta la sua irriverenza, e non lo puoi evitare. Segui le suole di altre scarpe, che seguono le suole di altre scarpe che salgono le scale, e poi le scendono anche, mentre le tue ti fanno male, e non sai perché. Schivi gli sputi, oltrepassi le noccioline, sfiori una donna profumata; poi una vecchia ti spinge, tu barcolli verso il muro, strappi un manifesto già mezzo strappato, non urli niente e te ne vai. Ogni giorno chiaccheri con la tua solitudine e le dici di non fare brutti scherzi, ma lei non dice niente, ti sorride, si sistema i baffi finti e resta lì. Allora cerchi di parlare con le persone, ma le parole si fermano lì, come un'esitazione tra il dentro e il fuori, che non sa dove andare: ti resta un sapore di niente nella bocca. Così accumuli del fiato tra le labbra, che non riesci più a trattenere; non ti resta che sbuffare e continuare, come i veri parigini. C'è un pupazzetto morto sul marciapiede, lo calci e vai via. C'è un pezzo di pane, lo calci e vai via. C'è un bottone giallo, lo raccogli e vai via. E' una lotta impari tra te e la città, che sa esattamente quello che non puoi trovare. Ti aggreghi ad una manifestazione: un segno di ribellione (pensi). Poi aspetti che il sole tramonti, per insultarlo di nascosto.

lunedì 4 aprile 2011

cocci, precocci, metacocci





+


+


=




martedì 22 marzo 2011

MARTA LA CAPRA vs L'ITALIA

IPOLOGIA DEL PATRIOTTISMO



Ad un certo punto intervenne nella conversazione Marta, rompendo un silenzio che durava ormai da diversi mesi:
"Non so", esordì, costringendo me e Mario a girarci.
"Non so, davvero, a me pare tutto molto assurdo."
"Cosa, Marta?" Le chiese il sempre serafico Mario.
Sempre serafico e paziente il Mario, io no, non riuscivo ad abituarmi all'idea che una capra parlasse, sia pur raramente, e la cosa -lo ammetto non senza vergogna- mi disturbava profondamente, mi procurava un'inquietudine che nascondevo a pena.
"Cosa, cosa… È presto detto. Non trovate incongruo questa specie di neonazionalismo, questo inedito amor di patria, da parte di chi -senza nemmeno cambiare cravatta- si professa di sinistra? Che cosa vorrà poi dire "di sinistra", a questo punto, solo iddio lo sa."
"Marta, vedi" provai ad interloquire, consapevole di costituire solo un escamotage letterario, pressoché inutile ai fini della vera dialettica "vedi, so di non poter portare vere argomentazioni, come ha fatto testé notare l'autore nell'inciso, ma solo una parvenza di esse buona giusto a dare l'idea di un contraddittorio, e a far spiccare ancora di più la giustezza delle tue. Lo so. Cionondimeno, non so se per colpa dell'autore o di questa bella brezza marzolina, ci tengo a farti notare che devi considerare il contesto: sei ancora convinta che esista una "sinistrezza" assoluta? Una posizione solida e imperitura, che prescinde da tutto quello che le accade intorno? Occorre fare i conti con la realtà, Marta: la destra attuale, in Italia, si sposta verso la merda più totale, e noi dobbiamo occupare le sole posizioni che possono costituire "opposizione", opposizione reale."
"Ma di che stiamo parlando?" belò Marta, "Veniamo schiacciati su posizioni che non ci appartengono, solo per inseguire chi sprofonda nell'immondo? Diventiamo nazionalisti, solo per contrastare i secessionisti? Ma stiamo scherzando? Questa è una reazione viscerale, impulsiva, in una parola: stupida. E finiamo per chiamare "estrema sinistra" Vendola o Di Pietro. Mario, almeno tu ti rendi conto?"
"Eh...", il sempre laconico Mario.
"E non è la sola trappola in cui siamo caduti ultimamente: diventiamo legalisti più del più becero dei fascisti, solo per contrastare la deriva criminale di questo governo; diventiamo pecoroni alla ricerca di un leader carismatico -Vendola, Grillo, Obama, Zorro…- solo perché quello che c'è sullo scranno non ci piace; diventiamo ecologisti… No dai, ecologisti è ok. Voglio dire, forse non so più bene cosa sia la sinistra -io bruco l'erba, fondamentalmente- però, suvvia, l'idea che si possa prender posizione solo per contrasto, di riflesso, in controbattuta, mah, è avvilente. E poi, tornando all'Amata Patria, c'è pur sempre la logica, che non è che noi capre la amiamo troppo, ma sto giro non ci si scappa."
"Cosa intendi dire, Marta?"
"Voglio dire.."
"Aspetta aspetta. Ti rendi conto che non ho nemmeno più un'argomentazione? Che l'autore mi ha tolto perfino il diritto ad avere un nome? Chi è che sta parlando in questo momento? Lo sa, il lettore? Lo so io? Sono ridotto ad essere una muta replica, solo un mero rimbalzo, porco cane!"
"Me ne rendo conto", rispose Marta rosicchiando un vecchio stivale che spuntava dalla terra, "Me ne rendo conto, ma adesso ascoltami."
Con misurata poderigia, lentamente, Marta si mosse verso la cima di un piccolo dosso, a fianco dell'ulivo. Marzo soffiava da ovest delle nuvole rosa e ancora fredde, il sole delle sei torceva le foglie delle viti, nell'aria dei campi si intuiva la necessità di velocizzare la narrazione.
"Signori miei, vado a spiegarvi perché il patriottismo è sciocco. Procederò per elenchi. Tre punti, tanto per cominciare:

1 Si suole associare al patriottismo (in tutte le sue declinazioni: amor di patria, campanilismo, nazionalismo…) la nozione di "orgoglio", o di "fierezza". Ebbene, non ha senso. Non ha senso dirsi (sentirsi, perfino) orgogliosi di qualcosa di cui non si ha diretta o indiretta responsabilità. Non vi è merito -né vi è colpa, peraltro- nell'essere nati dentro un determinato confine -siamo figli dell'accidente- né nel condividere la (provvisoria) nazionalità con, che so, un Leonardo, un Calvino, un Dante. Per non parlare di ciò che di questa patria -o di costoro- si ammira: merito tuo? Ne sai qualcosa, tu?
(Mario sputò per terra)

2 Esiste davvero l'Italia? Cioè, cos'è questa cosa di cui stiamo parlando, questa cosa che ci unirebbe tutti, l'"italianità"? Se la tagliamo a fettine un po' più sottili, ci rendiamo conto quanto sia una nozione ineffabile, inconsistente. La lingua? Allontaniamoci un attimo dalla televisione -megafono e fucina di un impasto padanomilanese che del lavaggio in Arno chi sa cosa ricorda-, ci accorgeremo che la realtà italiana è molto più frammentata di come ce la servono, i dialetti sono vere e proprie lingue, e se per assurdo provassimo a muoverci camminando -metro per metro, a noi capre riesce abbastanza naturale- verso un qualsiasi confine (che so, da Dobbiaco verso l'Austria), vediamo che la lingua cambia impercettibilmente con l'avanzare dei passi, fluida e graduale, strada facendo. La cultura? Territorio ancora più impervio, tanta è la ricchezza, tanta è la diversità, nel tempo e nello spazio, sia al livello della cosiddetta "cultura popolare" (le tradizioni, diciamo), sia al livello di quella "alta" (cosa condividiamo io e il Dante di cui sopra? Abitava dove abito io? Non parlo della stalla, ma non credo comunque…).
Questa l'Italia: è l'Italia stessa a dimostrare che l'Italia non esiste, così come la vogliamo ridurre, semplificare, stereotipizzare.
Questa l'Italia. E noi? Noi individui? Ah, noi siamo territorio ancora più caleidoscopio, volendo. Non voglio certo negare indiscutibili elementi di "italianità" in me, pezzetti dell'identità più o meno esattamente riconducibili alla "cultura italiana" -sentite le a questo punto doverose virgolette nel tono in cui lo dico-, sia essa figlia della storia o dell'attualità. Ma c'è molto altro: sono anche veronese, europea, mediterranea, americana: mi compone un diorama di cose, tra cui non ho l'ardire di stabilire una gerarchia né quantitativa né qualitativa.
L'unica cosa (per ora) ineccepibile è la cittadinanza. Tutto il resto è gioiosamente discutibilissimo.

3 Se proprio voglio scegliere un gruppo cui appartenere, perché gli italiani? Se qualcosa da celebrare, perché la nazione? Voglio dire, e il fatto che sono bionda? Che sono studente, pescivendolo, capra? Secondo quali parametri dovrebbe essere meno importante? O l'insieme che si crea, meno nobile? Che poi, lasciate dire una minchiata a questa vecchia capra caprina, cos'è questa specie di horror libertatis che ci porta a riunirci a tutti i costi agli altri, a rinchiuderci in rassicuranti (e miseramente semplificatorie, sintetizzanti) categorie, a catalogarci secondo insiemi tanto facili al pregiudizio? Lasciamo che siano gli altri a farlo con noi, se credono. Ma almeno noi, al nostro stesso cospetto, siamo (esortativo) individui, innanzitutto! Non italiani, non biondi, non eterosessuali, non pecore: c'est à dire, anche italiani, e anche tutto il resto.
Piuttosto, nel dubbio, troverei molto più simpatico celebrare ciò che patentemente non siamo: domani vado ad un corteo di oche. Tedesche, more.
Che dite?"
"Non fai una grinza. Bene tutto quello che dici, molto logico, ma fatto sta che il sentimento di unità con gli altri mi piace, credere in qualcosa mi piace, mi fa stare bene, e per me amare la mia patria vuol dire anche curarsi di lei, contro le brutture della politica, contro chi la inquina, contro chi ne fa una brutta cosa. Questo è il mio patriottismo."
"Sì, concordo" disse Mario, riappropriandosi per un attimo del nome, "non si tratta di ritenersi migliori di altre nazioni: si tratta di voler difendere la propria. In questa specie di nazionalismo -se vuoi chiamarlo così- sento di fare del bene, e se proprio vuoi saperlo, beh, mi sento una persona migliore."
Marta la capra lasciò cadere un po' di perle caprine dal culo.
"Ok. Va bene. Mi avete convinto, adesso appendo una bandiera al frassino.
Ma prima se non vi dispiace farei la cacca. Allontanatevi, per piacere, non riesco a concentrarmi."
Ci allontanammo, Mario bofonchiando qualcosa di inintelligibile, io con gli occhi sempre fissi sul mandorlo, come mi ha insegnato a fare mio padre nei momenti di impasse.
Non avevamo fatto che pochi metri, un colpo secco e poderoso fece cadere il Mario lungo disteso sull'erba, una violenta scornata di Marta la capra, che pure non ha le corna ma una testa indubbiamente dura.
"Chiedo scusa, rimando ancora un attimo la cacca. Ancora una cosa devo dirvela."
Il sempre placido Mario si rialzò gemendo, io tolsi gli occhi dal mandorlo a malincuore. "Sentiamo", dissi.
"Sedetevi, prima."
"No."
"Sedetevi, vi dico"
"No."
"Forza, sedetevi."
Ci sedemmo.
"Ecco, niente.. È che non mi torna una cosa. Dite che -stringi stringi- bandiere, inni, mani sul cuore, cortei e coccarde al petto.. Tutto ciò bene o male non è che un simbolo, un richiamo e un segnale: di questo concreto amore per la vostra terra. Bene, mi sta bene. Ma ancora: perché mai l'Italia? Perché gli italiani? Mi sembra, nella sua facilona buona volontà, che sia allo stesso tempo poco e troppo ambizioso. Solo perché è comodo. Voglio dire, perché mai la voglia di tutelare la natura, gli sforzi per migliorare le cose, diciamo genericamente l'"impegno", ecco mi spiegate perché tutto questo deve finire dove finisce il confine della nazione? Esiste un perimetro dell'ideale? Una geografia che contorna la polis del cuore?
È poco ambizioso, quando possiamo puntare -a dir poco- al mondo. A dir poco.
È troppo ambizioso, quando ci rendiamo conto che il reale raggio della nostra influenza politica -nel migliore dei casi- non supera i confini delle nostre conoscenze. Nel migliore dei casi. Ovviamente parlo della politica relazionale, non tiratemi in ballo per piacere le elezioni o in generale la democrazia rappresentativa, ah ah ah, me la rido."
"E chi ti dice che il nostro impegno è solo riferito all'Italia? Ci preoccupiamo e ci occupiamo di tutto quello di cui ci si può occupare, fuori e dentro i confini, senza stabilire priorità -se non contestualmente."
"Sì, infatti", incalzai io, "e anche quella che tu chiami "politica relazionale", ovvio che la facciamo, la stiamo facendo anche qui adesso, con te."
"Ma allora, vedete. Torniamo all'inizio della fiera: perché l'Italia? Perché la bandiera italiana? E non qualsiasi altra cosa, che sappia ugualmente rendere l'idea simbolica di questo amore sempre un po' fuori bersaglio?"
Io e Mario non parlavamo più. Forse avremmo anche avuto delle cose da dire, ma non potevamo, perché il nostro silenzio serviva a creare una pausa ottimale per la battuta finale di Marta la capra. E anche perché eravamo inspiegabilmente occupati a masticarci l'un l'altro i piedi.
"Bene ragazzi, vado a cacare. A questo punto la cosa è improcrastinabile."
La sera imbruniva la campagna, i campanili si perdevano nel buio della valle, eravamo tre ombre sole, io ero un'ombra, Mario era un'ombra, Marta -che si allontanava- era l'ombra più scura.
"Mi troverete sotto al frassino. E quando verrete" disse la sua voce già lontana "dovrete alzare gli occhi a ciò che sul frassino garrisce. Vi stupirò, ragazzi. Vi stupirò."


Il giorno dopo -triste e breve epilogo, per niente significativo- io e Mario andammo al frassino. Marta era lì, appesa per il collo ad un ramo, immobile, leggermente mossa dall'aria della mattina. Ma a dire la verità non si riusciva a capire se fosse davvero lei o un fantoccio, neanche avvicinandosi, neanche toccandola.





giovedì 24 febbraio 2011

orizzonti d'umiliazione




+




=

giovedì 10 febbraio 2011

Post-retrò

Scrivo tutto sulla schiena, l'ultimo spazio che mi è rimasto per appuntarmi. Sono meticoloso, così metto anche le note a piè di pagina, a chiusura, prima dello sfintere. Scrivo la mia scrittura definitiva, quella che poi una volta scritta non ce ne saranno altre (pensi), ma poi è propabile che continui a scrivere perché è una cosa che si fa come vomitare: ogni tanto ubriacarsi e sboccare l'anima fa bene. Ho sempre pensato di avere le spalle abbastanza larghe (me lo diceva spesso mio nonno) per sorreggere gli eventi che eventualmente si sarebbero presentati nella vita, ma era tutta presunzione. Sono una via di mezzo tra il mitologico Atlante e lo zoologico Stercorario: cammino a gambe larghe per scaricare meglio il peso di una palla di merda che sta sulle mie spalle, ma non so come ci è finita, forse è caduta dal cielo, forse se la sono persi quelli della nettezza urbana universale. Mi piace tanto la parola "monnezza", perché mi sembra che sfoghi tutta la caparbietà delle nostre incrostazioni temporanee (i sacchetti della spazzatura) e di quelle costanti (noi stessi), però purtroppo sono padano e quella parola non la posso pronunciare come si deve: monnezza! Vorrei incidermi sulla schiena un frase epica, qualcosa che poi i posteri possano rammentare mentre sono intenti a scorrere il catalogo dei posteriori celebri, una frase ad effetto insomma, che riesca ad incarnare tutta la mia desolazione. Non la trovo. Ci provo e non la trovo: sono troppo post-moderno, post-umo e post-remo per riuscire a trovarla. Scrivo le miememorie dove non posso vederle.

domenica 16 gennaio 2011

Labbra spaccate

Ho i ritagli di tempo sulle labbra, sarà il freddo o l'accumulo disordianto di carta nel cestino. Ho quasi capito che non c'è niente di vitale importanza. Solo il burrocacao è utile, lo lecco prima dell'applicazione: un'abitudine. Il tempo fa i ritagli come vuole lui, non si può sindacare sulla simmetria. Le sagome non combaciano mai bene una con l'altra, restano sempre delle fessure o delle sovrapposizioni, che non sei in grado di ricomporre. Appoggio la bocca sul foglio per lasciare tracce di sangue sul bianco, come spaccarsi le labbra sul ghiaccio. E' un movimento lento e letale, sento la goccia di sangue che si trasferisce dal labbro inferiore alla superficie del foglio, non mi appartiene più. Cerco le tracce di un tempo perduto che, col tempo, è diventato il mio sangue, e non so che farmene. Ho i ritagli di giornale sulla scrivania, tento di ricostruire una storia sempre presente, che non è accaduta mai. Intanto da lontano sento le loro voci, sono loro (lo so), sono quelli che aspettavo da sempre e finalmente: eccoli! Sono i barbari che mi spaccheranno la faccia davvero, non mi lamenterò più del freddo, non ce ne sarà bisogno. Impugno il burrocacao come ultimo baluardo alla mia imminente invasione. Sono loro, sono i barbari, a cavallo di un tempo lontano, mi stanno per travolgere, lo stanno per fare con tutti: non ci lamenteremo mai più delle labbra spaccate.

sabato 15 gennaio 2011

stornello V

Quer capoccione dell'amico mio
dice che l'omini so come le fojie
ner senso der poeta? Gl'ho domannato io
Dice de no, ner senso che dice su mojie

A quanto dice sor Carmela ai quattro venti
l'omini so come e grattachecche
se sentono tanto gajardi e impertinenti
tutti cor petto in fori e dritti come stecche

ma basta no sbarluccico de sole
e se squaglieno come la neve d'aprile
tutta sta caciara e s'ammosceno co du parole
peggio de le pecore che torneno all'ovile!

giovedì 13 gennaio 2011

Specchio riflesso

Ho una faccia di cartone.

Ritaglio i vestiti e li incollo alla mia sagoma con la colla Pritt.
E' bello perchè non posso ingrassare o dimagrire.
Quando indosso la gonna con gli angoli piegati un po' all'insù sembro una Marilyn un po' rigida.
Quando indosso i pantaloni sembro elefanticamente uscita dagli anni '70.
Cambio spesso il colore dei capelli. Sono felice perchè la loro forma perfetta non teme vento alcuno.
Quando mi va indosso i baffi. Li pettino con le mani lisciandoli per benino.
L'unico modo che ho per sorridere è quello di incidere un irreparabile semicerchio mezzo centimetro più sotto del naso.
Dicono si provi dolore.
Non sono sicura ne valga la pena.

domenica 9 gennaio 2011

stornello IV

L'amico mio co na capoccia tanta
dice ch'è così grossa pe' un motivo
è piena de certe idee che dio le manna
che manco Einstein se fosse ancora vivo

Una de ste meglio idee tra le tante
è de fa un lago de ghiaccio ner deserto
pe facce pattinà l'arabi cor turbante
meglio de Mosè ch'ha fatto er mare aperto

Dice che tanto quelli c'hanno i sordi
che gl'escono fori come l'oro nero
se penza che so' fessi come i tordi
c'avesse du piotte c'annrebbe pe davero

Io ce lo vedo co quella capoccia
annà dar berbero sopra ar cammello
quello a sentì der ghiaccio lo manna in cappadoccia
e torna a casa masticanno sto stornello

sabato 8 gennaio 2011

stornello III

Dice l'amico mio cor capoccione
che solo er cielo c'è rimasto de sto monno
vorrebbe facce un viaggio co' un pallone
fasse un ber giro tonno tonno

Gira e rigira sempre qua ritorni
glie dico io per sfotterlo un pochetto
Dice armeno me levo de torno un par de giorni
e quanno che ritorni stai solo soletto

Dimio così pe fasse passà l'ore
mica ce credemio pe' davero
semo così amici che se gliò chiedo mòre
come na gazza che schianta giù da 'n pero

Dice domani vedemio è n'artro giorno
a dì così morimio de vecchiaia
come er cane de Giggi che nun c'ha i denti e manco abbaia
quasi quasi capocciò io me levo de torno

venerdì 7 gennaio 2011

stornello II

N'artro giorno incollato a sta finestra
a smiccià de fori quello che se move
cor piatto ancora caldo d'a minestra
niente niente che tra poco piove

Invece manco du gocce gnente de gnente
me butto sur divano a legge un poco
de fori ce sta sempre meno gente
fosse per me a sto monno glie darebbe foco

Chiamo l'amico mio quello capoccione
dice che anche da lui nun vola na foija
glie chiedo che se dice ner rione
che voi se dica? S'arrotolamo nella noija

Dice che Giggi c'è rimasto poveretto
se stava a scavallà sopra un cantiere
è annato come na pera giù dar tetto
pe' llui sto sabbato niente barbiere

giovedì 6 gennaio 2011

stornello

M'è scesa na gran tristezza dentro ar core
come quanno vedi un cane che se more
la gente sta sempre a còre e poi s'affanna
li guardo dietro ar vetro che s'appanna

er core se ce l'ho ancora non lo uso
me stamperei da solo un carcio ar muso
pe' vede quanto sangue n'esce fori
perchè se manco vivi allora mori

scrivo all'amico mio che me capisce
co' la capoccia tonna piena de pensieri
che nun se svota manco quanno starnutisce
glie scrivo pe' dì che lui è de quelli veri

che vanno in giro con l'occhi sbarati
a vede tutta questa meravija
che un giorno ar monno semo capitati
er giorno dopo chi ce se ripija!