pudenda

sabato 15 ottobre 2011

ADDIO AL CELIBATO

Un indignitoso omaggetto dal Kolkhoz Mangiamerda al nostro Felicio Milza, che si è sposato. Accogli o Riccardone a guisa di goliardica scudisciata e come segno del nostro amore questo vergognoso e inconcludente raccontino a più mani, e quel che segue.
Noi ti si aspetta al varco.
Vivài sposi.



ADDIO AL CELIBATO

Aveva degli amici amanti del paradosso, e lo sapeva. E in fondo era lui stesso un fervido praticante dell'obliquità, dell'esagerazione sibillina, dell'insensatezza portata alle estreme conseguenze.
Ma quello che accadde quella sera non poteva in alcun modo prevederlo. Non poteva lui e forse non potevano nemmeno loro.

Quando la puttana cominciò ad agitargli le tette davanti al naso, grandi tette negre e odorose, gli venne in mente la risposta sferzante che avrebbe voluto dare ad un suo alunno, quel pomeriggio. La risposta, per come poteva formularla una mente già confusa dalla tequila e a pochi centimetri da un paio di vastissimi capezzoli, suonava circa così: "forse non ti rendi conto che Gutenberg è morto di crepacuore per molto peggio, piccolo stronzetto."

Lo riportò al presente un violento dolore all'anca sinistra. Carlo gli aveva conficcato una grossa siringa nel braccio, bucando i vestiti e spingendola dentro la carne di diverse dita.

"Cosa stai facendo, si può sapere?"
Carlo non diceva niente, rideva e basta con la sua faccia larga da prendere a sberle. Aveva gli occhi schiacciati e stretti per colpa del riso idiota, con l'altra mano gli toccò con presa decisa il braccio come a voler facilitare il gesto di estrazione della siringa.
Quando smise di ridere, il volto di Carlo si fece serio e quasi timoroso, lo guardò fisso negli occhi e con quel terrore discreto nell'esitazione delle parole, gli chiese quale fosse la differenza tra estetica e logos.


Nel frattempo la puttana continuava a dimenare le sua mammelle rigonfie e allungate come due sacche piene d'acqua.

Lui le fissava l'attacco del seno, appiattito e svuotato rispetto al resto, contava le pieghe, le piccole grinze di quel petto condannato al passare del tempo. Ci vedeva i vicoletti e le strade trafficate di Padova il mercoledì sera. Si immaginava lì, in una di quelle lunghe insenature poppute, seduto e dignitoso, ad accarezzare gattini, quegli stessi gattini che non tanto tempo prima Maria gli aveva cucinato, debitamente spellati e privati delle loro fastidiose unghiette. Un gran zuppone di gattini spappolati, che scivolava giù per il suo gargarozzo come un bambino dal costume pieno di merda sullo scivolo d’un acquapark.

Attaccò quindi con una citazione casuale a braccio di Galimberti, il suo nume tutelare, tanto per dar da mangiare alla stolida facciona di Carlo: “Una virtù (areté) che è cammino verso il centro invisibile e indicibile (árretos) da cui solamente è possibile il dispiegarsi di quelle armoniche circonferenze che sono il diritto, il rotondo, il bello e il giusto. Ma per questo ci vuole altissima conoscenza (méghiston mathémata), quella conoscenza matematica per cui Platone fa scrivere sulla porta della sua scuola Non si entra qui se non si è geometri.”


E fu sulla parola méghiston che, emettendo come un fischio dalle labbra negroidi, un fremito crescente scosse le mammelle e l’intero ventre della scura puttana, tanto forte da farla cascare a pancia all’aria, come una tartaruga dal guscio mollo e flaccido.


Si risvegliò in un cesso che non era il suo al suono ruvido di una verde milonga dei caraibi occidentali. Era probabile che lo sperma tra le sue mani fosse il suo, ma non ci poteva scommettere, perché in questi casi non si ha mai la certezza dell'appartenenza. Dov'era andato Carlo? Forse si era offeso per Galimberti? Lo sapeva bene che Galimberti a Carlo stava sui coglioni, ma se lo meritava: in fin dei conti lo aveva svegliato con una siringa vuota, fosse stata piena almeno. Voleva ritrovare la negra? Dov'era la negra? Per lo sconforto si mise a tamburellare sulle pistrelle bianche del cesso con le dita ancora sporche di sperma, che poteva essere il suo, ma a dire il vero non era tanto sicuro di riuscire a distinguerlo dagli altri con precisione.


In quel preciso momento, da qualche parte oltre l'oceano e la barbarie, ninetto accarezzava le zampine della sua oca da passeggio.



più l'accarezzava più la tensione saliva.

più l'accarezzava e più si sentiva solo.

più l'accarezzava e più dormiva come un ghiro.

gli amanti del paradosso non avevano idea di chi fosse.

all'improvviso fu terribile quello che non gli successe: non gli successe nulla di terribile.

aprì la bocca, ne uscì un pesce. aprì la bocca ne uscì un pesce.

aprì la bocca ne uscì un pesce. aprì la bocca ne uscì un pesce.

aprì la bocca ne uscì un giaguaro. aprì la bocca ne uscì uno stornello:

walter sei il nostro kennedy. oh kennedy. oh kennedy.

boia dio, pensò l'oca, questa è una hit!


Prendo una zattera che ritorna alle barbarie, lo vedo mentre prova ad assaggiare il gusto delle sue dita per capire se la sostanza (denominata: sperma) è un prodotto del suo corpo o altro; la sensazione al palato è simile alla patina che si forma sui gamberetti fritti ed è impossibile stabilirne la provenienza.
La verde milonga prosegue il suo cammino sonoro incurante dello stato d’animo che impegna la cognizione del Nostro che, risvegliatosi in un cesso ancora differente dal suo, arranca tra le sporgenze dei rubinetti e gli asciugatori color panna. L’immagine degli specchi non regala una vista dignitosa e raggiunto qual’era il pomolo della porta s’affaccia sul cortile adiacente la toilette: un piede dopo l’altro, un passo, due passi, le zampine dell’oca da passeggio nel frattempo vengono tranciate, ma questa è un’altra storia, tre passi, una negra popputa, Sciao Ammore! Chi sei?
Ignorando le avance prosegue nel suo cammino eroico verso la meta, un cancelletto lo libera dallo steccato in bianco legno macchiato di bassa qualità, dieci passi, undici, dodici, il sentiero di ciotoli lo guida fino ad una panchina di sassolini assemblati dal cemento; esausto, si siede, respira a bocca aperta, ciondola il cranio appoggiando i gomiti sulle rotule.
Riapre gli occhi, un divano variopinto accudisce le sue natiche, la milonga ha lasciato il posto al rituale di benventuo della casa: Sciao Ammore! Realizza d’avere le dita ancora imbrattate, non ne assaggia la provenienza essendo certo della natura di quella pastella biancastra ma si ripulisce le mani strofinandole sui morbidi cuscini.


Poi la porta si apre e finalmente entra.
Una figura ossuta, erosa dagli anni, che si trascina a stento su delle gambe ormai molli e stanche. Gli occhi, grigi e spent,i sono coperti da grumi di capelli unti e mal curati. Indossa abiti appartenenti ad epoche ormai dimenticate il cui odore fa lacrimare gli occhi.
Riccardo inzia a tremare desidernado di sprofondare nel divano per mai più risalire.
La figura emette un lungo lamento simile ad un clarinetto boemo del sedicesimo secolo ( non al suono del clarinetto per essere chiari, ma al calrinetto stesso) per tredici minuti e trentasette secondi.

- Sei la morte? - Chiede Riccardo al tredicesimo minuto e trentottesimo secondo.
- No, sono il Celibato, Dio can. -
- Ah.... Allora addio Celibato. -
- Addio Riccardo. -