pudenda

lunedì 10 marzo 2008

il cavallo e la conchiglia

DIGRESSIONE

di Andrea Masotti

Il cavallo degli scacchi
era una capra.

G. Steiner




Ad esempio Cortazar lo intuì un mattino qualsiasi del 1967, spalmando il burro sul pane e pensando all’appuntamento con Esther alle otto e mezzo al Gaumont Rive Gauche: intuì che il movimento era quello. Un pochettino più avanti e spostatevi di lato che c’è posto, serve un dialogo tra cronopios maori per scovare l’infinita saggezza che occhieggia tra le parole di un controllore di autobus di Buenos Aires, per capire che solo attraversando gli interstizi vivi ci andremo affacciando al noumeno, diceva Calac, diceva il controllore, pensava Cortazar, finendo di spalmare la fetta di pane e con la mente già altrove.
Se l’Occidente che in noi rádica non ci concede la fuga dalla consequenzialità, dal lineare rincorrersi della causa e dell’effetto, ebbene l’imprevista L ci insegna sulla scacchiera una diversa combinazione delle cose, dà occasione a un punto di vista veramente altro, ci permette di giocarci, con questa ineludibile consequenzalità.
Eravamo su un sentiero di montagna, in quella brulla prealpinità dove gli alberi si diradano e cominciano a far capolino le marmotte. La nobiltà del corpo che con fatica si eleva concedeva il naiveggiare della nostra chiacchiera, e di questo si parlava, di Oriente e Occidente, di orizzontalità e verticalità, della parabola del detrito portato dall’onda sulla spiaggia, che ben al di là degli Urali trova il suo perchè nel simultaneo essere -che non ci appartiene- e che da noi, sulle dita del Mediterraneo e dei figli dei suoi figli, si spiega -non può che spiegarsi- risalendo il filo della causalità, filosofia come noccioline, senza cura, in salita.
Questo filo, per l’Occidente che ragiona e produce, è catena che strozza. E il pensiero è cianotico, e solo questo oramai gli permette imbarazzanti timide insoddisfacenti erezioni. Ma andiamo con ordine.
Il parlare come si mangia ha sempre avuto per me un significato affatto particolare: mi piace sbriciolare i crackers sul tonno, non disdegno la pizza coi fichi, marmellata sulla mozzarella e miele sui pop-corn mi dicono gran bene.
Ma qua non si gioca con le parole, non ci interessano accondiscendenti necrobazie: qua, ancora una volta, con sempre maggior arroganza, si lavora di scalpello sul modus-cogitandi, si propugna un diverso modo di prendere le cose, quello che si propugna -è una nuova realtà. Seguiamo il cavallo. Dove ci porterà -e soprattutto per quali strade- non ci è dato di sapere.
Una volta ho cominciato una partita a scacchi con il nonno del nonno di mio nonno, che ha avuto termine solo settimane dopo. Era un gran giocatore, il mio trisavolo, ed io ero per così dire una schiappa. E si divertiva a prendermi in giro, a tenermi impegnato in larghe digressioni senza strategia apparente, e passavano le ore, la luce scoloriva la sera e l’alba la riaccendeva, e passavano i giorni, le settimane. Poi il mio antenato vinceva, ma non è questo che conta.
Non stiamo certo parlando dei miei avi, e nemmeno del tempo che scorre, neanche -per quanto ai più possa sembrare- di scacchi. E neppure di filosofia orientale, di modus-cogitandi o di cibo, che sia ben chiaro: qua, si parla di conchiglie.
La conchiglia è una costruzione in carbonato di calcio posta a protezione o a sostegno di alcune famiglie di invertebrati. Il termine conchiglia in senso zoologico è riferito ai gusci calcarei di svariati animali spesso ben differenti fra loro non solo come forma superficiale, ma anche come organizzazione morfologica e di conseguenza funzionale.
In una delle sue più ispirate Cosmicomiche -con una potente intuizione- Calvino si spinge lungo il calcareo spiralizzarsi della conchiglia, ci spinge a conoscere il reale. E lo possiamo vedere tutti che la scacchiera non è mai solo a due dimensioni, contiene ciò che dura, e i pezzi del gioco sanno gettare lunghe ombre sui suoi distici quadrati: e l’andare del cavallo è l’accenno di una spirale mai compiuta, spiraliforme in nuce, l’unico teso alla dimensione inconcessa, scavalca nitrisce e va.
E il tocco di questa conoscenza è obliquo, di una logica senza catene, dall’epidermide del carapace scivola sullo scoglio, dallo scoglio al treno che passa, dal treno al viaggiatore che legge Erodoto, alle piramidi, allo sciame di api, al contadino, alla figlia del custode seduta sulla soglia, e tutto è carapace.
Il salto dal palo alla frasca è sempre rischioso, occorre dosare potenza equilibrio e precisione, a farlo a casaccio -a freddo- si rischia di slogare congiunzioni, tumefare sineddochi, strapparsi tendini e metafore. Ma tentare è pur tuttavia necessario.
Al giorno d’oggi -senza nulla togliere alla notte- una fitta combinazione di tetragrammi sociali assuefa al culto della retta via, della nitida chiarezza, del dire brevilineo. Questo è male. Ovvero, fermo restando la buona fede e l’elementare utilitarismo, è un esercizio che ha conseguenze nefaste, nel vaso e fuori dal vaso.
La lenza ha tiro corto, il risalire è precipitoso e disteso: si parte da quello che è più vicino alla penna, un’autoreferenziale professione di stile, e poi ancora, una retriva e reazionaria deplorazione per l’impoverimento della lingua -nel vaso. E si arriva a ciò cui solo un tónico simbolismo parrebbe poter ricondurre, fuori dal vaso: la costituzione di una diversa scala di valori, il ripensamento dell’immaginario, una più agile e florida maniera di abitare il discorso di sè e del mondo.
Per dirla in un paragrafo, che sia finita una volta per tutte, d’un fiato: l’abominio dell’espressione che affligge il nostro quotidiano andare, del culto della sintesi è figlio. Culto della sintesi: tendenza all’affannoso limare, semplificare, ridurre all’osso. Fin dall’età senza peli e poi ancora, per tutte le stagioni della vita, che non si cada nel fuori tema, giammai, che non si perda tempo, dritti filati al bersaglio: va bene, impariamo a riconoscere l’essenziale, raffiniamo l’udito intellettuale verso “ciò che più conta”, arriviamo al cuore delle cose per saperle restituire con più efficacia. Va bene, e sia.
Ma noi non siamo cani, ci piace vágolar per l’aia -cavalli, capre, di stazza fiera e piede di mácina- e l’osso non ci può bastare.
Ossicini, coralli, cocci di vaso, pezzi di conchiglia. Il mercante veneziano disponeva i suoi reperti davanti al Gran Kahn, sulla muta scacchiera -muta per un attimo- su cui si incontravano ogni giorno. Nel testimoniare le sue geografie Marco compiva un atto di creazione, il racconto faceva esistere le città, i fiumi, il regno: aprire parentesi, cedere alle scansíe del discorso come il piede ai vicoli illuminati dal diagonale sole del crepuscolo, cominciare digressioni, accennare a sogni e a ricordi, divagare verso l’orizzonte inconcluso, nell’Oriente.
Oltre le parole, oltre le mercanzie, il viaggiare dei pezzi sulla scacchiera parla del mondo, oltre le geografie, il loro combinarsi lo crea. Ma tu sei nel tempo, fuori dalla scacchiera.
Avverti con lucido fastidio la nebulosità che ottunde il tuo concetto, il denso magma che rallenta il movimento del tuo squisitamente fisico cerebrare. Ti è dato di allenare in senso retrospettivo, o quantomeno orizzontale, il muscolo del pensiero, nell’attesa che la parte impersonale e biologica del tempo -un tempo altrimenti assolutamente tuo- operi su di te lo spostamento verticale -oltre le colonne d’Ercole dell’insospettato, insospettate esse stesse, verso un più ampio respiro mentale, che ad ultimo si traduce in una più consistente presenza intellettuale davanti a sè stessi.
Qua, qua dietro, ci attende l’inatteso: ci spostiamo senza troppa cura in un territorio che scopriamo di conoscere, ma senza svettare, senza mai goderne a piena coscienza, rischiando in ogni momento di incorrere nella fine della scacchiera. Il passo, è quello del cavallo. Non lineare, imprevedibile, elusivo, decisamente bizzarro -e il suo nome è digressione.
Digredior: allontanarsi, scostarsi. Allontanarsi da cosa?
Quando questa domanda comincerà a suonare senza significato, quando almeno un pò di volte al giorno -umilmente, propongo i dintorni dei canonici pasti- potremo permetterci di dimenticarla, ebbene allora, allora sì.
Ulisse, sovrano della poikilía -della variazione e dell’intreccio, doni di ermetico Ermes- nel nono libro, davanti ai Feaci, ricomincia la sua odissea, rimodella i suoi viaggi nel racconto, nella notte incommensurabile. E nel racconto, la voce di Proteo si nasconde dentro quella di Menelao, la voce di Circe si cela dentro quella di Ulisse, scatole cinesi, matrioške -nella notte che tutto nasconde il polýtropos assume i connotati di Sharazad d’oriente: Ulisse è colui che andò oltre. Oltre le colonne d’Ercole, nel regno fantastico e magico che si apre dopo capo Malea, oltre i confini del nostro mondo soggetto allo spazio e al tempo, alle nostre radici -cave come bambole di legno- Odisseo, colui che costruì il cavallo.
A posto quelle luminarie? Signore e signori, possiamo cominciare.

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