pudenda

sabato 16 maggio 2009

T'à sboro

di Caterina Ventisei

"T'à sboro". Intercalare stilnovista lagunare, questo, sulle bocche di tutti, grandi e piccini (come da proverbio: il veneziano ha lo sboro in bocca). Nella città sull'acqua non ci sono minacce reali, la notte è tutta vuota, calli piene di vento e ticchettio di passi. Niente stupri, pochi soggetti sospetti, spesso così sbronzi da cadere a terra prima di destar terrore. Il t'à sboro, però, mantiene le distanze tra le persone, compie utili discriminazioni tra straniero e foresto, è un'arma impropria sulle delicate bocche delle ragazze che tanto gentili e tanto oneste paiono.
I pulotti a Venezia li ho visti poche volte, spesso si muovono a piedi o in barca, con una lentezza abbacinante. A volte, piacere dei poveri, ci si sedeva in qualche barca di altri con un tubo in mano: passavano i caramba sulla barchetta, ci guardavano tirare minacciosi, ma per ormeggiare ci mettevano sei anni e noi eravamo già belli che sgattaiolati, con gli occhietti rossi di barricadera felicità... Immaginate dunque quanta presa il delirio securitario possa aver fatto sullo scostante e faidesco popolo veneziano, che alla povera difesa delle forze dell'ordine preferisce il violento vernacolo locale.
La venezia silenziosa e i veneziani autodifensivi non impediscono ai vari Fede di fare dei bei video sullo spaccio nel tranquillissimo sestiere di Casteo: il povero Emilio ci sarà rimasto male a non trovare troie e bamba in laguna, credo. In realtà, c'è poca malavita e molta diffidenza, in questa provincia infiocchettata del mondo. Venezia è marginale e museale, anarco/autarchica: le vere minacce sono Marghera e il nano, per tutto il resto c'è il t'à sboro.

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