pudenda

sabato 10 dicembre 2005

IL DECALOGO MANGIAMERDISTA


Manoscritto seicentesco di tal Sergio Sarsone, ritrovato e trascritto da Andrea Masotti, Michele Barbolini, Carlo Pigozzi


La punta: sense

O anime morte, o spenti simulacri vacillanti all’incerto confine tra il non essere e l’essere stati, o noi, sacchi di merda e pensiero, guardiamoci nello sguardo: basta. È ora di finirla. È ora di ricominciare.
Qui è il tremito che scuote la terra e munge i peri di infruttuoso marciume, qui è il titanico mareggiare che annega le cantine del nostro esistere, rovinando i salami, ora è il fastidioso trillo che sveglia, che ci alza la testa dal libro e al libro ci ritorna, con occhi nuovi, di chi riscopre per la prima volta le cose, occhi di clown, di bambino: qui, ora.
Ma se è vero -persecuzione, catartica mania- che un sistema si pone a decidere a monte un codice segnico fuori dal quale non si può uscire per dire le cose, anche nella più aspra protesta, noi su questo sistema possiamo soffiare il nostro vento, quello che fa parlare le foglie e solletica la spina dorsale, dobbiamo avanzare adesso la nostra epidermica destabilizzazione, in un ambiente dove impera il politicamente corretto vogliamo rompere i coglioni, vogliamo aprire i cuori.
Non si ravvisi alcun intento distruttivo. Non siamo contro i docenti o contro le lezioni: la voglia che ci muove è anzi ri-costruttiva, quello che si tenta è una riedificazione dell’io e di quel territorio dove l’io si spande. Vogliamo passare una bella mano di colore.
Convinti di intaccare anche la sostanza delle cose, il nostro lavoro punta a tutta prima sulle forme: chiunque può accorgersi, con virtuosa esibizione di banalità, che esistono molti modi di dire le cose, diversi linguaggi. Con questo decalogo ne proponiamo uno non nuovo -in sapore di dadaismo- ma abilmente dimenticato dalla nostra pulita benpensante scienza della comunicazione. Perché imprevedibile, difficilmente categorizzabile, non controllabile: l’atto mangiamerdista non è un articolo, non è un’improvvisazione teatrale, non è vandalismo, non è un gelato allo zabaione, forse.
Forse, queste azioni non sono che una sorta di minuto cuneo sociale fattivo, una riconquista del diritto di trans-gredire, un cambio di direzione che ci è altrimenti precluso da binari imposti dalla consuetudine. E tutto ciò su un piano per lo più simbolico: non recano queste azioni reale danno a nessuno e ciò nonostante sanno cambiare -per la durata del loro esistere: è questo, volutamente, il raggio della loro influenza- la situazione concreta delle cose. Noi si va avanti a pane e vino, non a metafisica. Forse.
Forse sono una vera e propria espressione artistica: poetiche nel senso più vero queste nostre azioni che, prodotte dalla crisi, sono per contrasto espressione di una prepotente rinascita, di una primavera che non si ferma al giardino antistante alla mensa ma che entra anche nelle aule, non solo sotto forme di generose scollature muliebri, ma anche come brezza giovanile, come fustigazione esistenziale, come squillo di tromba. Forse.
Forse tutto ciò e tutt’altro, forse, e pure senz’altro manifesto previo, siccome assorbenti esausti, non ci resta che arrendere ai fatti queste note di traduzione, forse, non aggiungere controindicazioni a quelle che già detterà il nostro buon senso e lasciare quindi a noi, o anime impavide, la pratica del decalogo mangiamerdista.


Il decalogo mangiamerdista

1. l'aquirente

Un uomo con indosso un grembiule e un sacchetto entra in un'aula durante una lezione e urla (meglio se con accento napoletano o toscano): -Un panino al crudo e una coca light-. Il complice seduto tra gli studenti si alza e dice: -Sono per me-. Si avvicina all'uomo-grembiule lo paga prende il sacchetto ed entrambi se ne vanno per vie diverse e traverse.

2. il supergiovine

Il supergiovine entra con la moto da cross in un'aula (possibilmente la t4 passando dal prato) prima che inizi la lezione. Quando il prof arriva il supergiovine accende la moto, dando violente accellerate ogni qualvolta il prof manifesti l'intenzione di parlare, sovrastando così la voce di quest'ultimo col suono più supergiovine che ci sia: il rombo assordante di una moto da cross! Il supergiovine continua nella sua azione fino alla fine della lezione, andandosene poi impennando.

3. la torcia umana

In aula un soggetto si dà fuoco al braccio (ovviamente adeguatamente protetto, o anche no) e inizia a correre avanti e indietro urlando: "Aiuto! Aiuto! Sono la torcia umana!" oppure: "Brucerete tutti a coppie di tre!". Finale in cenere.

4. nostalgie inizio secolo

In costumi da bagno anni '30 comprensivi di: canottiere rigate orizzontalmente, pantalone semi lungo, reggicalze a caviglia, calzino, scarpa e baffo; passeggiare nei meandri dell'ateneica struttura, soffermarsi di fronte ad una finestra ed esclamare indignati: "non esistono più le mezze stagioni!"

5. 175 minuti

Uno entra a lezione e si blocca in piedi proprio davanti alla cattedra o proprio in qualsiasi altro posto, postura a piacere, e lìvi rimane immobile come di sale per 175 minuti. Vibratore anale.

6. il duello

Due soggetti vestiti da nobili inglesi si raffrontano in uno dei corridoi dell'università. La tensione sale (possono contribuire altri complici fino a formare un assembramento di curiosi con tanto di scommesse e venditore di bibite). Giunge infine mezzogiorno e al battere del dodicesimo rintocco delle campane (qui sta il problema, a Giurisprudenza so che si sentono le campane, a Lingue non so) i nobili inglesi estraggono e sparano.
Le possibili armi:
-pistole finte
-pistole vere
-pistole vere cariche
-pomodori verdi fritti
-tovaglioli
-fette di mortadella
Concluso il duello un paio di persone portano via il cadavere (vero o finto a seconda dell'arma) del nobile inglese perdente, mentre il vincente se ne va al bar a bersi una spuma.

7. felicità

Lezione di filosofia. Si entra in gruppo, 5,6,7 non importa. Dopo qualche minuto dall'inizio della lezione si iniziano a dare i primi segni di impazienza e sconforto. Ci si accascia sul banco, si portano le mani alla testa, si sbuffa, si getta a terra un guanto con stizza, un paio si alzano e se ne vanno visibilmente delusi. Un complice inizia a singhiozzare. Al culmine dell'insoddisfazione uno si alza e dice: "No ragazzi, così alla felicità non ci arriviamo!" e insieme ai restanti complici si alza e se ne va sconsolatissimo.

8. non possiamo non dirci americani

Ignudi, non sporchi, controllare le condizioni del tempo sopra il giardino. Proclamare con timbro baritonale: "non possiamo non dirci americani". Quindi uscire. E con amore, in numero uguale o maggiore a due, accoppiarsi sopra il giardino e sotto il tempo che sia, usando tutte le dovizie per godere e far godere, senza trascurare nessuna concavità o convessità proprie e altrui.
Ah, l'amour! Ah, l'america!

9. te la sei cercata

Si entra in numero da 5 a 42, con spranghe e catene, e si pesta a morte il primo che capita a tiro. Proprio fino alla morte.

10. Leccatemi la fava

Durante una lezione uno invecchia fino al punto di perdere tutti i denti. Poi si alza, si fa la cacca addosso, e nello sconcerto generale biascica qualcosa, come:
- giovinastri senza vergogna, vergognatevi.
- mi sono fatto la cacca a dosso.
- aiuto. Ho le rughe. Leccatemi la fava.
- l'ho visto, è scappato in quella direzione.
- cosa devo dire?
Poi si denuda, e spicca il suo fallo dal corpo come un mango maturo.



Il tacco: non sense


E invece no. Non tanto il danno l’occhio pedante e critico vede, non tanto il danno la schiena pavida e inane teme, non tanto il danno. Ben prima, ben prima, non si vede e non si teme. Più facile eludere, sdrammatizzare, ben più facile ridicolizzare e minimizzare: inutili questi spasmi creativi, infantili e privi di senso. È questo che il vostro cervelletto non accetta, è questo che vi fa tremare, miseri omuncoli.
Non attacca. Non ci entro più in questo paludoso lago di retorica, troppa gente, fra il piscio dei mocciosi marmocchi grufolano greggi di bagnanti sudati e io no, io non mi voglio bagnare ancora. Eludo, ridicolizzo, nuoto via.
In questo porcileo sguazzare leggo un affanno tipico di voi umani: la ricerca esasperata, ansiosa del perché terrestre. Com’è ozioso tutto questo, quanto è vecchio.
Riscoprire il sottile gusto del non-sense, la libertà dalla gabbia dell’intenzione dichiarata, convincersi che il significato sta sempre altrove, mai univoco. Sentire che le cose sanno nutrirsi di sé e bastare a sé stesse pure senza ratio umana a dettare la traduzione e assegnare il valore, a determinarne dignità d’esistenza.
Questa la rinnovata forma mentis che vuole creare il nostro decalogo, grappolo di succulenti attimi il cui senso -il cui sapore- non si esaurisce in quello che si può spiegare a parole.
Perché il senso di questi attimi d’uva, distillato, è molto meno forte del loro contingente accadere.
Dovete andare, anime belle, dovete fare: interi vigneti ci aspettano, e per ridare vita alla vita non c’è che mangiarsela, a bocca aperta, acino per acino. Adesso.

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