pudenda

sabato 10 dicembre 2005

MEZZOBICCHIERE (carne)

di Andrea Masotti e Michele Barbolini

Il punto: per una mitizzazione dello studente in rivolta (il bicchiere mezzo pieno)

Si è mossa molta carne in questi giorni, siamo sgomenti.
Ma cos’è accaduto perdiana, è accaduto tutto senza precauzioni, con foga animale, presi tra il capo e il collo passanti occasionali morivano di crepacuore ad ogni angolo di strada, malcapitati avventori si bloccavano guardinghi col pelo ritto sulla schiena, cos’è accaduto, cos’è accaduto, è accaduto che l’istinto del giorno, un raggio, ha rivelato corpi dove si credeva notturna desertità, dove alpiù mandrie di vacche nere, tutte sopite, tutte uguali, ma cos’è successo, cos’è successo perbacco, è successo che masse di gomiti e bulbi oculari hanno cominciato a stiracchiarsi con l’impeccabile stile dell’elefante nella cristalleria, è successo che un fiume di capelli biondi neri bordò madreperla ha inondato le stente aule, è successa la vita.
E perché mai? Ma cosa mai?
Neanche fosse domenica, neanche fosse paesello, neanche fosse campana, che lingua rintocca contro dente e palato e ci è toccato svegliarci tutti, siamo sinceramente sgomenti.
Abbiamo visto cose inaudite. Abbiamo visto ascelle arrabbiate spezzare il sole del pomeriggio ottobrino, natiche poderose conquistare il giardino dell’università, abbiamo sentito autorevoli petti parlare dalle impervità di un palchetto di legno, carne fresca e indignata: eroiche mani, stretto il nostro presente universitario in sicuro pugno, mani adulte e mani giovani, di qua e di là della cattedra, hanno cominciato a pugnare.
Inarrestabile corrente di carne fresca e indignata passa non si arresta ci porta via, sradica rettorato e istituzioni, contagia di rabbia studenti professori bidelli fumatori camminatori solitari, passa e porta tutti via, porta tutti giù, a solleticare la spina appenninica fino a esplodere in vorace cascata a Roma, laggiù, nella capitale arroccata in intoccabile empireo, in quirinale, arroccata a governare senza senno, a riformare.
Siamo sgomenti.
E intanto qua, intanto anche qua, pure qua, cos’è accaduto mai, secolari dormienti in asburgica culla ha rovesciato nella coscienza questa prepotente mareggiata di scapole e cosce, nasi chini al dogma della lezione come soldati silenti in tristi camerate questa onda di fieri zigomi ha risvegliato.
Ma che hanno fatto, chi sono, da dove sono venuti?
Polsi disperati, dita ribelli, cos’hanno fatto mai, hanno cominciato a impastare come pasta la forma mentale del nostro studente bambino, a massaggiargli le spalle del pensiero, mai Verona aveva visto tanto, cose inaudite, abbiamo visto aule magne riempirsi di muscoli e sangue come otri, abbiamo visto aule studio cambiare il vestito e traboccare di nuova vita, abbiamo visto.
Chi insegna, e chi di cultura si nutre, abbiamo visto insieme, pance incazzate, labbra credule, fronti appassionate: e non si fermano, e noi sgomenti, e non si fermano qui.
Pergiove.

La croce: per uno smadonnamento dello studente rivoltato (il bicchiere mezzo vuoto)


Sgomento sì, l’altosilente parola invoca sbigottimento e perplessità melliflua, da modellare a piene mani a mo’ di pongo equestre. Abbiamo visto ingenuità signorinostri, l’ingenuità del bimbo appena desto che cerca la tetta ad occhi chiusi, sbatte sull’addome e si fracassa prepotente lo zigomo sinistro. Abbiamo visto l’angelica creatura universitiera con candore primaverile parlarci di buona educazione e formalità burocratiche, abbiamo udito facezie sul bon ton e i permessi che verbigrazia van dimandati con colletti inamidati che spaccano il respiro nella strozza. E abbiamo visto e udito con sgomento sulfureo il venir meno al richiamo della terra, alle tradizioni del bifolco ma pur sempre saggio popolano, del contado che raccomandava a noi veneti di darci alla vigna e suggere il frutto fermentato di uve grappoliformi di cogliere quel nettare struggente quando che stilla dal frutto altorecato. “Giammai” udimmo inveire incontro a noi, “giammai il nutricamento peccaminoso avrà luogo finchè vivrò ed avrò sacra protestate in esto loco”. Ciò, sodali, ci fu detto, e detto fatto mutammo il nettare in fruttifero succo proibizionista e ruscelli di pompelmo ed albicocca si riversarono in bicchieri di fortuna per meglio sciogliere nel palato torte caserecce e salamelle di stagione.
Ingenuità s’è detto, ma anche macchinamenti arditi. Noi che fummo ala giacobina già nella Parigi robespierrica fummo oggetto di obbrobriose accuse. “Riformisti!” ci fu detto a destra e a manca, per lo vero più a sinistra, a sinistra e a manca, a manica. Ci fu da prender posizione, ci sdraiammo, non andava, si provò a gambe incrociate ma s’informicolavano, si provò quella dell’orso. Ci furon da sventare giullarate poco accorte, malintesi funambolici, assalti filosofici, dibatti ermeneutica, e concistori esorbitanti.
Per noi che abbiamo visto coi nostri sette occhi il grido s’alza unanime e cogente, come il corvo di Allan Poe : mai più. Mai più demagogismi, mai più politicismi isterici, mai più occupazionismi aprioritari, mai più ribaltoni mediatici e fuga dei microfoni. Mai più pescinfaccismo.

E certo è che s’è stato quel ch’è stato chi ha avuto ha avuto ha avuto chi ha dato ha dato e ha dato ma il passato docet non si scorda, e il solco è men confuso si fa nitido, la strada di molte s’è fatta una, mai più deviazionismi e curve a gomito, mai più ruote fra i pali e bastoni in ogni dove. Noi s’è imparato e noi s’è molti la contrada è larga la tavola imbandita, di merda ce n’è per tutti.

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