pudenda

martedì 10 maggio 2005

ELOGIO DELLA CAPRA

di Andrea Masotti
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"Siamo figli dell'epoca,
l'epoca è politica."
Wislawa Szymborska

Vertigine. Non esattamente paura, piuttosto primordiale attrazione che su di noi esercita il vuoto, atavico istinto che ci spinge oltre l’egida di apollineo Apollo, quello degli strali come pensieri - o forse, più prosaicamente, accidiosa pulsione all’autodistruzione che chiude gli occhi e apre il cuore, e ci fa dimentichi di noi stessi. E, certo, paura di questa stessa pulsione.
Qualcosa di analogo provo ogni volta davanti al foglio bianco, incorrotto, anche solo per un momento, prima di scrivere. Poi torno a scorgermi: la metafora ha fatto il suo dovere, l’analogia dovrebbe cadere.
Ma stavolta per un po’ voglio restare, accoccolarmi nella metafora: esiste una non sottile linea di confine, momento di poesis estrema, fugace condizione che precede la razionalizzazione del nulla, Kant ancora non è intervenuto col suo rassicurante sguardo, il baratro non ha un nome e l’ebrezza non conosce la paura di sé, la vertigine.
Mi fermo qui, sul ciglio del precipizio: con le capre. E come capra sto, sapendo di me e dello spazio verticale sotto con quella conoscenza che ancora non approda al soglio di umana ratio, che chiameremo fascinazione, concessa per così dire soltanto al corpo, ai sensi.
Ma non è facile essere capra di questi tempi.
Questo momento passa, è un istante. Poi mi abbandono all’abisso, lancio nel vuoto la mia riflessione - che solo da questo picco, il più alto, può essere lanciata.
Mi lascio andare con goffo volo, e temo sempre di sbagliarmi. Del resto, nel tuffarmi nell’unicum che l’altro da sé comporta, rischio in ogni momento di perdere il filo che mi lega a me stesso, e mi tocca affidarmi all’istinto. Ma so di non sbagliarmi.
Avverto una paura. C’è una paura nell’aria, un diffuso timore che non si manifesta se non lo si nomina, che non saprei come nominare
esattamente; che mi provo a descrivere, cominciando da ciò che dall’acqua affiora.

Politica. Fastidio, disagio, inadeguatezza, forse noia. O, appunto, paura. E’ un tremore sensibile quello che si respira al solo pronunciare questa parola, si è costretti a stare attenti, a non usarla se non in caso di estrema necessità. I motivi sono diversi, e in buona misura legittimi: all’idea di politica riesce più immediato associare il modello democratico in uso - come si è visto, fallace e ottimizzabile - con speciale riferimento ai giochi di potere che sono quanto di più lontano dall’interesse e dall’effettiva conoscenza del cittadino, quando non perfino la politica particolare di questo governo - e in questo caso una presa di distanza derivata dal disgusto sarebbe quantomeno comprensibile.
Ma più a fondo questo pavido e accidioso arretrare credo denoti una fuga di responsabilità (che rivela - nonostante tutto - sussunto il concetto di politica come abitazione della polis, contratto di relazione con il sociale), che è a sua volta indizio di qualcosa di ben più grave e radicato, direi patologico: il rifiuto - nonché la difficoltà oggettiva – di riflettere (soffermarsi a riflettere) sulla propria condizione. Questo accade quando per l’individuo l’introspezione si muta in utilitaristica endoscopia, quando il sistema lavora contro con inesorabile disegno, quando non c’è tempo.
Ci immergiamo. Nuotiamo trattenendo il fiato nel sempre meno poliforme e colorato fondale dell’istruzione: scorgiamo, come pesci dalla vista scissa, giovani studenti che attraversano umbratili le università italiane, sgusciano via. Entrano il mattino, escono la sera, seguono qualche lezione e nel breve giro di tre, cinque anni la risacca li lascia a riva - e non so dire se evoluti anfibi zamputi, o riversi su un lato, boccheggianti.
Essere studente significa vivere una convalescenza o un accidente di privilegio che prima o poi finirà, una fase sentita - non a torto - come transitoria. Non a torto. Ma la conseguenza più deteriore è appunto la perdita di un’occasione di intelligenza di sé e dell’epoca, attraversati per così dire a testa bassa, come muli da soma.
Io preferisco la capra. Fiera, ostinata, con un destino di saggezza scritto nella barbetta ispida, la capra si staglia con petto impavido davanti al vuoto, davanti al vuoto per tutta la sua vita caprina, e non ha paura di abitare quello stato dell’animo che ho chiamato fascinazione: è questo stato dell’animo che ci è privato, che rifuggiamo con viltà, questo intervallo fra la percezione del vuoto e il suo concetto. Così il vuoto smette di esistere, ma solo perché ne viene meno il sentimento, è un’illusoria ninna-nanna che ci lascia sul viso un disimpegnato sorriso di soddisfazione, beati dormienti.
Avvertire lo scarto fra sé e il reale dovrebbe essere l’unico viatico possibile per un’azione che ci restituisca un peso sociale, che ci renda presenti a noi stessi con coscienza, con voglia. Ma a noi stessi siamo lasciati, vittime prime di un’idea (e di una prassi) di cultura che si vuole necessariamente settoriale e utilitaristica, idea che porta a limitare la nostra libertà all’orizzonte che solo ci deve competere, una cultura dalle spalle strette ed esili, che non dà gli strumenti per farsi abitatori della polis fin da studenti, e che educa al minuto operare per l’immediato e solipsistico ritorno.
Come riuscire a riflettere sulla propria condizione, dove trovare la forze? Perché farlo?
Non è facile affrancarsi dall’abitudine di un pensiero dal fiato corto, alzarsi ad alta quota, di questi tempi: non è facile essere capra.
Ma possiamo tentare - questo giornale è un tentativo, non sarà il solo - con la forza e la debolezza che attingiamo dall’essere in qualche modo maieuti di noi stessi, consapevoli di abitare una società che si modella anche sul calco della nostra presenza.
Rifiutare di essere solo padroni del nostro destino, cominciare ad essere padroni del nostro presente, fin da ora: questo vogliamo, come capre.

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