pudenda

mercoledì 27 agosto 2008

Ecate


"Questa è la mia ultima città" disse Marco, staccando delicatamente le labbra dal pene grassoccio del Khan.
"Pensavo fossero finite da tempo" rispose il sovrano.
"Mancava questa. E come accade con le persone, non potevo parlarne con verità se non una volta lontano."
Kublai Khan guardò negli occhi il mercante veneziano. "Questo significa", disse pensieroso, "che non potrai mai parlarmi della grande capitale, la mia città, quella in cui stiamo adesso."
Marco Polo distolse lo sguardo, si sedette a gambe incrociate sulle maioliche e rispose: "Ho detto che questa è l'ultima, sire. Ma per guadagnare la distanza esistono due modi. Posso andarmene io, oppure può andarsene la città."
"Questa città non è una carovana di nomadi." Lo interruppe secco Kublai, "non se ne va e non arriva."
"Sdraiato nelle tue sete finisci per non capire. Io ti racconto il tuo regno senza muovermi dalle tue stanze, così come tu lo governi. Posso farlo perchè ho imparato a leggere i suoi segni, percorro la catena di traduzioni che ogni sua pietra mi propone, e in ogni sua pietra riesco a vedere dove conduce questa catena." Marco rialzò lo sguardo. "Una città se ne va quando muore, sire."



Chi vi arriva non ne esce più. Questo è quello che si sente dire su Ecate, la più perfetta delle città. E ad arrivarci non si stenta a crederlo: palazzi bellissimi dividono canali di acqua cristallina, guglie scintillanti e statue smeraldine si stagliano contro il cielo limpido. Ovunque ruscella la serenità, le coppie procedono senza fretta, mano nella mano, i bambini corrono liberi per le strade, il selciato splende come mille specchi.
Ma quando scende la sera, per un attimo su quell'argentina perfezione alita un momento di inquietudine. Tanta ricchezza, pensa il viandante alla sua prima notte, deve nascondere un contraltare. Ladri, invidiosi, predoni, chi vela l'oscurità? Ma è solo un attimo, il viandante si deve ricredere: ancora a notte fonda, innamorati sorridenti vagheggiano nella luce della luna, le balaustre e i lampioni riflettono le stelle, i bambini non hanno smesso di capriolare nei cortili, con strilli di diamante.
Non vi è in effetti nessun pericolo: da secoli la città è protetta da una milizia speciale, forse l'istituzione più antica, una confraternita che si tramanda il compito di generazione in generazione, invisibile e pure presente ovunque, vigile e infallibile in ogni momento. Grazie ad essa, Ecate non sa cosa sia il delitto, i suoi vicoli e i suoi suburbi non conoscono brutture né violenza, si è persa memoria di torti, assassinii, ruberie.
E' questo il segreto di Ecate?
Il trascorrere delle lune reca al viaggiatore, assieme alle lusinghe della sedentarietà, anche un sottile presentimento, l'eco di una lontana angoscia. Perchè andarsene? chiede a sè stesso a mezza voce. Fuori non c'è questa pulizia, questa sicurezza: oltre le mura, vi è solo il pericolo.
Così è questo che accade a chi mette piede a Ecate: l'assenza della cosa di cui aver paura insinua piano, nelle ossa, il senso di una minaccia imminente, che non si vede, da là fuori. E questo fuori divora a poco a poco lo spazio, la paura dell'indefinito che incombe riduce inesorabilmente il perimetro del dentro, spinge il viandante dalle mura al centro cittadino, dalla strada alla casa, dall'uscio alla stanza più interna, inghiottito dentro il suo dentro, schiacciato dall'immenso fuori.
Da una fenditura nella finestra sbircia, in strada, i visi sereni dei giovani e dei fanciulli -sempre solamente loro per le strade, sempre gli stessi- e solo allora con l'ultimo lume di ragione intuisce: essi sono la confraternita dell'ordine.
Ma è ormai troppo tardi: vi è entrato, e non ne uscirà più, condannato come tutti i veri abitanti di Ecate -la più sicura e la più impaurita delle città- a tremare per nessuna insidia, per sempre, con la testa sotto il lenzuolo.


"La tue città sono iperboli." Il Khan parlava di tra le spire del fumo, che tirava e fluiva dalla lunga pipa di mogano "Sono esagerazioni. Il tuo sistema mi è chiaro. Prendi le minime storture che ricordi, gli accenni di degrado che vedi, e li ingigantisci per i tuoi racconti. Esistessero le città come tu le dici, non saresti qua a raccontarle."
"Ogni città, sire" rispose Marco estraendo piano il pene dal culo di Kublai Khan, "è allo stesso tempo l'iperbole e la diminuzione di sé stessa. In ogni sua pietra è già disegnata la sua gloria e la sua perdizione. Io ti racconto il tuo regno senza mai muovermi dalle tue stanze, così come tu lo governi. Ma non esagero mai, nè sottraggo alcunchè alle mie descrizioni: se fossi partito dalla tua reggia, non avrei saputo dirti niente di più. Come accade con le cose: non si può parlarne con verità se non dall'interno del loro cuore pulsante.
La città è come il tuo palazzo, il muscolo cardiaco del potere. La tieni nel poderoso palmo della tua mano, e lei allo stesso tempo ti contiene. Sdraiato nelle tue sete finisci per dimenticarlo, ignori i segni che ti suggerisce, e la morsa delle tue dita si stringe attorno alla tua gola. Sei tu a creare l'iperbole che temi, grande Khan, conducendo a morte la città, e in lei te stesso."

13 commenti:

Anonimo ha detto...

deh eh ih!

enavico

Anonimo ha detto...

Urca, un blog dove non bisogna farsi un bidè prima di entrare! Iuppi...

piloro ha detto...

Ma è meglio lavarsi i denti prima di uscire. Stai all'occhio.

duodeno ha detto...

jot ma non è la rielaborazione di un racconto che ho già letto? uno di quelli sulla città appunto. Mi piace.

piloro ha detto...

Lo è.
Cioè, il racconto è poco più che un esercizio stilistico di calco delle città invisibili, idea che avevo proposto alla collettività e che non trovando adozioni ho provato a sviluppare io. Noiosa l'idea, noioso il risultato.

Rispetto alla versione che avevi già letto tu ho cambiato il nome della città, forse ho aggiustato il finale e soprattutto ho aggiunto la cornice PoloKhan, peraltro prevista fin dall'inizio.

Posso essere ancora più noioso. Ricordo ad esempio che quando è scoppiata la guerra del golfo, a sentirne spesso parlare al tg la mia mente andava alle assonanze con golf, golfino e ingolfare, ed è lì che è nata la mia passione per i motori Lacoste. Poi a scuola un giorno durante la lezione di geografia ho imparato cosa fosse effettivamente un golfo, e da allora la guerra del golf ha assunto per un certo periodo le sembianze coloristiche di una pagina di sussidiario, soldati in riva al mare con le loro mazze e i loro maglioncini, stretti tra la fotosintesi e la classificazione dei regni. Quanti siano i regni, nonostante l'Epsilon Tessera, ho smesso di saperlo. Ciò che invece gli anni a suon di sberle mi hanno inculcato ben bene è, a capo, la differenza tra il golfo e la costa. E allora da allora al primo limitare di ogni inverno -quando serve vestirsi caldi- non posso fare a meno di spendere una lacrima, guardandomi simbolicamente indietro, per tutte le assonanze che mi hanno reso quello che sono. Grazie, assonanze.

D'altronde se davvero vi piace (Barbolini, quindi più di uno, se la terza sezione del sussidiario non mentiva), si può ben metterlo, nel numero o sul comodino accanto al trofeo per la trota più grossa, spostando il titolo Ecate giusto sopra la città, e lasciando un ovvio noioso arrogante "Le città sicure" a titolo del tutto.

"Noia", il sottotitolo.

Anonimo ha detto...

Non ho capito. In ogni caso per me non è noioso. L'invito a lavorare sulle città invisibili non l'ho potuto seguire non avendole ancora lette. Ma mi piace il racconto inserito in questa cornice. Mi piace anche molto quello che scrivi per le assonanze. Anzi, lo propongo per il mezzonumero.

Barbo

piloro ha detto...

Ma ultimamente quali sono le tue letture?

Anonimo ha detto...

io e Barbo ultimamente ci divertiamo a leggere le scritte dietro i cartoni del latte.

non è forse letteratura? forse vuoi iniziare la polemica sulla letteratura di consumo, popolare, quella alta, no no dai dillo che sei prevenuto con i cartoni del latte, me lo aspetto da te!

E. il battibeccante.

Anonimo ha detto...

Di fronte ai cartoni del latte mi taccio e mi inchino.
Quelli, sul prossimo numero. Lo facciamo in tetrapak.

Anonimo ha detto...

Ho appena letto "un cuore così bianco" di Javier Marias. Poi ora leggo per semidovere un'antologia che mi dà un po' di angoscia. Otto scrittori praticamente tutti nostri coetanei che parlano del diventare grandi. Cioè di quando finisci l'università, inizi un lavoro, magari fai dei figli e non passi più le giornate sul forum del traghetto o a giocare a picce per strada commentando le autoreggenti della Lina.

Fortuna che a noi non accadrà mai.

Barbo.

P.s. se c'è in qualche modo un velato rimprovero perchè non ho prodotto alcun testo per il mongrafico, non posso darti torto. Se non c'è alcun rimprovero allora lo attendo. Mi piace quando mi percuoti.

Barbo

Anonimo ha detto...

fantastico.

c.

piloro ha detto...

mmm... Perplessità.

Per dirne due, fantastico cosa, la digressione sul golfo, gli occhi del barbo, il post itself?
E poi: fantastico dici. Ma a quanto pare tu mi sei la ragazza di Ivanhoe. Cosa pensare quindi dei tuoi gusti?
E poi: fra otto giorni staremo strettissimi, conviene prenotare?

Ne ho dette tre.

a.

Anonimo ha detto...

No beh le morose. Allora.

No beh adesso però.

Insomma.