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Scrivo tutto sulla schiena, l'ultimo spazio che mi è rimasto per appuntarmi. Sono meticoloso, così metto anche le note a piè di pagina, a chiusura, prima dello sfintere. Scrivo la mia scrittura definitiva, quella che poi una volta scritta non ce ne saranno altre (pensi), ma poi è propabile che continui a scrivere perché è una cosa che si fa come vomitare: ogni tanto ubriacarsi e sboccare l'anima fa bene. Ho sempre pensato di avere le spalle abbastanza larghe (me lo diceva spesso mio nonno) per sorreggere gli eventi che eventualmente si sarebbero presentati nella vita, ma era tutta presunzione. Sono una via di mezzo tra il mitologico Atlante e lo zoologico Stercorario: cammino a gambe larghe per scaricare meglio il peso di una palla di merda che sta sulle mie spalle, ma non so come ci è finita, forse è caduta dal cielo, forse se la sono persi quelli della nettezza urbana universale. Mi piace tanto la parola "monnezza", perché mi sembra che sfoghi tutta la caparbietà delle nostre incrostazioni temporanee (i sacchetti della spazzatura) e di quelle costanti (noi stessi), però purtroppo sono padano e quella parola non la posso pronunciare come si deve: monnezza! Vorrei incidermi sulla schiena un frase epica, qualcosa che poi i posteri possano rammentare mentre sono intenti a scorrere il catalogo dei posteriori celebri, una frase ad effetto insomma, che riesca ad incarnare tutta la mia desolazione. Non la trovo. Ci provo e non la trovo: sono troppo post-moderno, post-umo e post-remo per riuscire a trovarla. Scrivo le miememorie dove non posso vederle.
Ho i ritagli di tempo sulle labbra, sarà il freddo o l'accumulo disordianto di carta nel cestino. Ho quasi capito che non c'è niente di vitale importanza. Solo il burrocacao è utile, lo lecco prima dell'applicazione: un'abitudine. Il tempo fa i ritagli come vuole lui, non si può sindacare sulla simmetria. Le sagome non combaciano mai bene una con l'altra, restano sempre delle fessure o delle sovrapposizioni, che non sei in grado di ricomporre. Appoggio la bocca sul foglio per lasciare tracce di sangue sul bianco, come spaccarsi le labbra sul ghiaccio. E' un movimento lento e letale, sento la goccia di sangue che si trasferisce dal labbro inferiore alla superficie del foglio, non mi appartiene più. Cerco le tracce di un tempo perduto che, col tempo, è diventato il mio sangue, e non so che farmene. Ho i ritagli di giornale sulla scrivania, tento di ricostruire una storia sempre presente, che non è accaduta mai. Intanto da lontano sento le loro voci, sono loro (lo so), sono quelli che aspettavo da sempre e finalmente: eccoli! Sono i barbari che mi spaccheranno la faccia davvero, non mi lamenterò più del freddo, non ce ne sarà bisogno. Impugno il burrocacao come ultimo baluardo alla mia imminente invasione. Sono loro, sono i barbari, a cavallo di un tempo lontano, mi stanno per travolgere, lo stanno per fare con tutti: non ci lamenteremo mai più delle labbra spaccate.
Quer capoccione dell'amico mio
dice che l'omini so come le fojie
ner senso der poeta? Gl'ho domannato io
Dice de no, ner senso che dice su mojie
A quanto dice sor Carmela ai quattro venti
l'omini so come e grattachecche
se sentono tanto gajardi e impertinenti
tutti cor petto in fori e dritti come stecche
ma basta no sbarluccico de sole
e se squaglieno come la neve d'aprile
tutta sta caciara e s'ammosceno co du parole
peggio de le pecore che torneno all'ovile!
Ho una faccia di cartone.